"Donate i miei organi". Il lascito di una condannata a morte

Reyhaneh Jabbari, la donna uccisa sabato scorso in una prigione iraniana, in una lettera alla madre aveva scritto le sue ultime volontà prima di salire sul patibolo

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Il boia nel mondo non prova vergogna nemmeno di fronte a una donna. Sabato scorso, 25 ottobre, Reyhaneh Jabbari, è stata uccisa per impiccagione in una prigione di Teheran, in Iran. Condannata a morte nel 2009 per aver ucciso un nuovo che aveva tentato di violentarla due anni prima, nel 2007. La donna si era sempre difesa sostenendo di aver sì accoltellato l’uomo (un ex dipendente del ministero dell’Intelligence iraniana), ma non di averlo ucciso. Un riesame del caso iniziò nell’aprile 2014, senza però che le nuove indagini rivedessero la pena da infliggere alla donna.

Pena che non sarebbe stata quella estrema, se la famiglia dell’uomo ucciso l’avesse perdonata. Per farlo, tuttavia, il figlio della vittima aveva chiesto che Reyhaneh negasse di aver subito un tentativo di stupro. Lei si è sempre rifiutata di farlo, così è stato proprio il figlio dell’uomo ucciso, sabato scorso, a togliere lo sgabello da sotto i piedi di Reyhaneh e a vederla morire per impiccagione.

Un ultimo anelito di altruismo ha distinto la donna prima di salire sul patibolo. In una lettera alla madre, Reyahneh aveva infatti scritto: “Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata, il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le mie ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori oppure pregate per me”.

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ZENIT Staff

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