"C'è campo per Dio nella mia vita?"

Esercizio di ricerca della fede – II. L’uomo, da bussola a radar, oggi è un decoder

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ROMA, venerdì, 30 novembre 2012 (ZENIT.org / Copercom).- Riprendiamo di seguito la riflessione di monsignor Domenico Pompili, sottosegretario Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, pubblicata oggi sul sito Copercom e tenuta nel corso dell’incontro mensile con i giornalisti, svoltosi mercoledì 28 novembre presso il monastero romano dei Santi Quattro Coronati.

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Mi ha colpito alcuni anni fa un libro scritto da due psichiatri che operano nel campo dell’infanzia e dell’adolescenza. “L’epoca delle passioni tristi” è un viaggio che conduce a scoprire un malessere diffuso che attraversa tutte le fasce sociali. Appunto ‘le passioni tristi’, secondo l’espressione di Spinoza, per indicare un senso pervasivo di impotenza e incertezza che porta a rinchiudersi in se stessi, a vivere il mondo come una minaccia. I problemi dei più giovani sono, in realtà, il segno visibile di una cultura fondata sulla gratificazione istantanea che ha smarrito il senso del desiderare. In effetti, con la morte dell’io è morto anche il desiderio. Proprio questa è la condizione di molti che non s’aspettano più nulla. Dalla vita, dagli altri, da Dio.

È che una volta l’uomo era come una bussola e quindi si orientava in base al nord che è la dimensione trascendente, poi si è trasformato in un radar in grado di captare segnali, come tanta parte della letteratura del Novecento che si protende nella ricerca del senso. Ma oggi forse l’uomo è solo un decoder. Non cerca più. Non c’è alcuna tensione oltre se stessi, tutt’al più si vuole essere nella condizione di essere raggiunti. Come quando stando in un posto nuovo si cerca ansiosamente di verificare se c’è campo. La domanda è: c’è campo per Dio nella mia vita?

A questa domanda sembra alludere la pagina del Vangelo che inaugura- a tinte forti e da decriptare con attenzione – il tempo liturgico dell’Avvento che non vuol dire attesa, ma è la traduzione della parola greca parousia, che significa presenza, o meglio ancora arrivo, cioè presenza iniziata. Siamo portati a ritenere che il nostro desiderio abbia il suo oggetto di soddisfazione sempre ‘al di là’ di dove ci troviamo. La sua realizzazione ci sembra una questione di un futuro che si sposta sempre più in avanti. La bicicletta che da bambini era l’oggetto del desiderio, come l’ultima cosa da volere prima della felicità, così come da grandi il grande amore anziché spegnere il desiderio lo rilancia verso mete ancora sconosciute. Gli oggetti cambiano, ma il desiderio resta vivo. E ci si accorge che quel che ci è chiesto è in realtà l’ironia sufficiente a non scambiare le turbolenze della storia per segni della fine imminente fosse pure l’ultima profezia Maja. Bisognerà invece continuare a tenere alto lo sguardo. Ma come? Ascoltiamo la pagina di Luca* che ci accompagnerà lungo tutto l’anno liturgico cui si dà avvio.

[25] Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, [26] mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. [27] Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande. [28] Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. 

[29] E disse loro una parabola: “Guardate il fico e tutte le piante; [30] quando già germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l’estate è vicina. [31] Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. [32] In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto. [33] Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. 

[34] State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; [35] come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. [36] Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”. 

Gesù sta parlando all’interno di un luogo-simbolo: il tempo di Gerusalemme. Luca registra nel suo vangelo un orientamento deciso del Maestro che punta alla Città santa, ove si compirà il suo destino. Il suo parlare è come una sorta di addio ed assume la forma di una presa di posizione pubblica, prima che le ore decisive prendano il sopravvento. Non stupisce che in tale contesto Gesù parli degli eventi ultimi in termini che possono turbare ma che sono in realtà parole di incoraggiamento e di resistenza. Come si capisce dall’invito a ‘levare il capo’. Il venir meno del sole, della luna e delle stelle, cioè di tutti quei corpi celesti che erano ritenuti immutabili e incrollabili, saldi e fermi da sempre e per sempre, è un modo per alludere alla fine di un mondo, ma non alla fine del mondo. Le realtà contingenti sono tutte soggette al mutare. Ciò che è finito è destinato a scomparire. Agli sconvolgimenti corrispondono quelli interiori per cui si è presi dall’angoscia, dall’ansia e dalla paura che sono le reazioni più immediate davanti alla forza irrefrenabile della natura. Le notizie dell’Ilva di Taranto di oggi con i morti e le distruzioni, le gru in mare hanno qualcosa di raggelante. Sembrano essi stessi ‘segni’ inquietanti, Ma questi fatti non devono solo spaventare perché inducono a non reagire. Proprio quello cui vuol intendere il Vangelo che si indirizza contro i rassegnati che fatalisticamente attendono la fine e moltiplicano le scadenze ad orologeria e gli impazienti che vorrebbero vedere miracolosamente trasformato il mondo sotto i loro occhi. La fine di un mondo è spesso solo la premessa per la nascita di qualcosa di nuovo. Ma ci vuole capacità di resistenza e concretezza perché il nuovo accade se noi non diventiamo degli ostacoli. Se – in altri termini – accettiamo di cambiare. “Vivere significa cambiare ed essere perfetti significa aver cambiato spesso” ammoniva il beato Card. Newman. La crescita è l’unica prova della vita.

Ma cosa vuol dire in concreto cambiare? Stando all’invito netto di Gesù, vuol dire “state attenti a se stessi”. Il Maestro conosce bene la tendenza ad affogare la delusione entro surrogati diversi che finiscono per appesantire i cuori. La prima forma di vigilanza è quella da esercitare verso di sé. Questa priorità è un segno di realismo perché il rischio di distrarre da sé l’attenzione per compiere chissà quali opere è sempre incombente. E infatti sono all’ordine del giorno: dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita.

Le dissipazioni frammentano il nostro ‘io’ e lo disperdono. Si tratta di uno spreco di energia, perché si destina a cose e situazioni che non erano previste. Qui il discorso non è moralistico, ma suggerisce di evitare di trovarsi diviso, disperso, frantumato.

Le ubriachezze non vanno intese in senso solo letterale come alterazione delle facoltà fisiche e mentali, causate da abuso di alcool o di droghe, ma come tutti quegli anestetici cui si ricorre per sedare la propria ansietà. E sono pure tutti quei meccanismi di difesa e di fuga che ci impediscono di vivere una vita autentica.

Gli affanni della vita, infine, sono tutti quei pensieri che si tramutano in preoccupazioni che ci tolgono la gioia della vita, la serenità di godere delle piccole cose di ogni giorno, la libertà di concentrarci su ciò che si va facendo e non su altro. Perché sempre proiettati a raggiungere i nostri obiettivi.

Se si riesce a non appesantire i cuori, si percepisce finalmente l’invito decisivo: “Alzate il capo”. È un atteggiamento da risorti quello di alzare la testa che dice la tensione verso l’alto e la reazione da quell’atteggiamento di risacca psicologica e morale per cui non ci si eleva più, si è come risucchiati. La tendenza a non guardare in alto è ancora più radicata andando avanti negli anni. Anche da giovani si può perdere la spinta e venir risucchiati dalla tristezza, ma in ogni caso la freschezza del corpo e la vita tutta da scoprire aiutano non poco. A mano a mano invece che si procede si tirano i remi in barca.  Ciò spiega perché paradossalmente sia più difficile credere da adulti e da anziani che non da giovani. Non lo si penserebbe. Ma è così: molto di più è richiesto ad uno che è vissuto a lungo quando si tratta di mantenere uno sguardo aperto verso l’alto e non ripiegato nostalgicamente su di sé.

Qui è il punto: occorre preservare lo sguardo verso l’alto in cui consiste la fede, sottraendosi alla pesantezza dei giorni e innalzandosi sopra le nostre e altrui piccinerie. E la preghiera è la condizione per preservare la fiducia. Non la preghiera che si accontenta di seguire i propri bisogni ma quella che si esprime alla luce calda e rassicurante di Dio. Senza preghiera è difficile credere.

La forza che decide tutto è quel che segue: “Perché la vostra liberazione è vicina”. È questa la ragione che al di là della buona volontà sostiene l’apertura alla novità che è Dio. All’inizio non c’è la necessità. “All’origine c’è un essere appagato, un cittadino del Paradiso”, sostiene Levinas. Ma non basta tornare ad appagarsi degli istinti fondamentali. L’uomo non è solo come Ulisse che vuole tornare indietro nella sua Itaca. È piuttosto come Enea, meglio ancora come Abramo che esce verso una terra che non conosce, di cui avverte forte il desiderio. Ed è proprio questa meta che sta dietro, ma è sempre da riconquistare avanti a sé che tiene desto il desiderio fondamentale che è poi quello di Dio.

Come nella splendida preghiera di S. Anselmo (1033-1109):

“Signore tu sei il mio Dio, tu sei il mio Signore e io non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, mi hai donato tutti i miei beni e io ancora non ti conosco. Io sono stato creato per vederti e ancora non ho fatto ciò per cui sono stato creato … Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti” (dal Proslogion).

* Lc 21,25-36

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ZENIT Staff

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