ROMA, sabato, 24 novembre 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito il saluto del Rettore della Pontificia Università Lateranense, monsignor Enrico dal Covolo, al Colloquio annuale di Dottrina sociale della Chiesa Area di Ricerca “Caritas in Veritate”, svoltosi dal 21 al 22 novembre 2012 presso l’ateneo romano.
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Eminenze ed Eccellenze Reverendissime,
Signori Ambasciatori,
Autorità religiose, accademiche e civili,
Professori e Studenti.
Sono molto onorato di potervi accogliere presso la Pontificia Università Lateranense, meglio conosciuta come l’Università del Papa, nell’occasione del secondo Colloquio di Dottrina sociale della Chiesa organizzato dalla nostra Area di ricerca “Caritas in Veritate”.
Il tema delle “Istituzioni di pace”, al quale è dedicato questo colloquio internazionale, certo non interessa da ora la riflessione della Dottrina sociale della Chiesa, che ha tra i suoi obiettivi più importanti proprio la promozione della pace. La connessione tra custodia della pace e cura della giustizia sociale è affermata anche dal Concilio Vaticano II, che nella Gaudium et spes insegna:
“La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi a rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è l’effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con esattezza definita opera della giustizia (Is 32,7)” (Gaudium et spes 78).
Nella visione della Chiesa la pace tra gli uomini non è uno stato facilmente raggiungibile, né si può pensare o sperare di raggiungerlo saltando le mediazioni umane, culturali, politiche necessarie a configurare efficacemente i rapporti sociali: è in questa prospettiva che il contributo proprio delle istituzioni – pur sempre da precisare e da migliorare – è ineludibile[1].
L’enciclica Pacem in terris del Beato Papa Giovanni XXIII insegna che senza conversione e tensione a quattro valori fondamentali, neppure l’impegno istituzionale può sperare di sortire risultati duraturi, proprio perché la pace presuppone la convergenza di verità, giustizia, amore e libertà.
Così si esprime il papa: “La convivenza fra gli esseri umani è ordinata, feconda e rispondente alla loro dignità di persone, quando si fonda sulla verità […]. Ciò domanda che siano sinceramente riconosciuti i reciproci diritti e i vicendevoli doveri. Ed è inoltre una convivenza che si attua secondo giustizia o nell’effettivo rispetto di quei diritti e nel leale adempimento dei rispettivi doveri; che è vivificata e integrata dall’amore, atteggiamento d’animo che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, rende partecipi gli altri dei propri beni e mira e rendere sempre più vivida la comunione nel mondo dei valori spirituali; ed è attuata nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di esseri portati dalla loro stessa natura razionale ad assumere la responsabilità del proprio operare”[2].
Troviamo qui la connessione tra la dimensione istituzionale della pace e la sua dimensione, diremo così, spirituale e culturale: verità e giustizia sono criteri che riguardano la società nelle sue strutture oggettive, dunque, nelle sue istituzioni. Di fatto, la pace presuppone che i diritti di ogni singola persona vengano veramente rispettati e che la società nel suo insieme sia retta da sistemi e leggi equi.
Ma non bastano procedure e comportamenti corretti. La pace, insegna l’enciclica, è anche questione di amore: ossia, è questione che implica l’effettiva stima, empatia e compassione verso gli altri uomini; ed è questione di libertà, in altre parole, interessa la cosciente e deliberata accettazione e affermazione di far parte della grande famiglia umana.
Quali sono, dunque, i passi che l’umanità può compiere per avvicinarsi alla vera pace? Essa richiede nel contempo riforme istituzionali e una conversione del cuore di ogni singola persona.
L’enciclica fissa tre passi di questo cammino, il primo dei quali è l’“operante solidarietà” tra i popoli, espressione concreta della coscienza di tutti i singoli uomini e di tutti gli Stati di far parte di un’unica grande famiglia: il genere umano.
In secondo luogo è indispensabile un disarmo comune, cioè la rinuncia alla minaccia radicale da parte degli Stati di usare la violenza armata come strumento di affermazione politica.
La terza misura consiste nel fortificare l’autorità politica a dimensioni mondiali[3].
Basta qui ricordare il magistero dei Papi recatisi in visita alle Nazioni Unite[4] a documentare la sollecitudine e la preoccupazione della Chiesa nei confronti degli organismi internazionali e mondiali che hanno tra i loro obiettivi la promozione della pace.
Non ci può essere vera pace, dunque, se non c’è cura e attenzione allo sviluppo di tutta l’umanità secondo criteri di verità, di giustizia, di amore e di libertà, e non secondo quelli della legge del più forte, del più ricco e del più spregiudicato. L’intuizione fondamentale di questo legame inscindibile tra pace vera e duratura – Immanuel Kant aveva espresso tale concetto con l’espressione “Pace perpetua”[5], e Luigi Sturzo con il rifiuto che persino si desse la nozione di “diritto di guerra”[6] – e giustizia ci consente di sostenere l’assunzione della ricerca del bene comune universale da parte delle persone che operano nelle istituzioni nazionali e sovranazionali come lo scopo principale di un’autorità politica ispirata ai principi di solidarietà, di sussidiarietà e di poliarchia[7] e come il valore morale essenziale nella gestione della vita sociale. È questa, probabilmente, una delle chiavi di lettura di tutto l’apparato dottrinale di Pacem in terris[8]: invero, non può dirsi un caso il fatto che l’espressione “bene comune” ricorra ben 48 volte nel testo dell’enciclica.
Prima di concludere, credo sia necessario affrontare un ultimo punto. Non possiamo non ricordare infatti l’opera e la figura di un illustre professore di questa nostra Università, poi Rettore e infine Cardinale, che contribuì in maniera decisiva alla stesura dell’enciclica Pacem in terris, inaugurando così un tratto nuovo del percorso compiuto dal Magistero sociale della Chiesa cattolica.
Mi riferisco al cardinale Pietro Pavan, insigne studioso e maestro di questioni sociali, che fu nostro docente per molti anni e che per la sua competenza e il suo contributo all’elaborazione di una Dottrina sociale della Chiesa fu creato cardinale dal Papa Giovanni Paolo II. Già Sua Eccellenza Mons. Toso ha contribuito decisamente a tenerne desta la memoria; e noi ricorderemo in maniera ampia ed esplicita il card. Pavan nella serie di incontri intitolata “Maestri in Laterano”, che avrà inizio il prossimo 6 dicembre (in quella data, però, ci limiteremo ai cardinali Parente e Palazzini).
Da parte sua, l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne il 27 ottobre 1999 una conferenza alle Acli, nella quale tratteggiò (con intelligenza venata da vera stima e sincero affetto) un profilo del cardinale Pavan e una presentazione del suo contributo alla comprensione della recta ratio, intesa quale punto di raccordo tra soggetti di provenienze culturali, spirituali e politiche diverse, e tuttavia interessati al medesimo bene della pace. Potremmo dire, il punto di intersezione tra istituzioni pubbliche e soggetti privati, entrambi interessati alla costruzione della pace.
Si tratta di realtà diverse, che tuttavia possono offrire possibilità di contatti e di rapporti, che a loro volta possono dischiudere possibilità insperate di soluzione ai conflitti, a partire dalla persuasione (e dall’esperienza) che nell’uomo vive sempre la ragione, grazie alla quale s
i possono superare impedimenti e barriere ideologiche.
Il prof. Pavan era convinto – seguendo in questo la tradizionale dottrina dell’imago Dei – che nell’uomo l’immagine di Dio non può mai essere totalmente distrutta e che, anzi, la scintilla della luce divina vive sempre nella creatura umana. È questa scintilla che può far rivivere la recta ratio, la vera ragione dell’uomo, e può far incontrare tra loro le esigenze della persona umana e quelle delle istituzioni, entro un processo magari difficile, complicato, lento, che risponde a una logica “incrementale” e “processuale”, piuttosto che “costruttivistica”, tipica di una certa ingegneria sociale.
Di fatto, la storia successiva a Pacem in terris – il crollo del comunismo ateo, a fronte del quale si era risposto con la corsa agli armamenti e l’ideologia della deterrenza – ha dimostrato che la realtà è più forte delle ideologie e che la recta ratio, la luce di Dio, è una realtà capace di cambiare il corso della storia e di contrastare la presunta necessità del conflitto e della guerra.
Con il presente Colloquio internazionale la Pontificia Università Lateranense, attraverso l’Area di Ricerca “Caritas in Veritate”, intende proseguire il medesimo cammino di riflessione e di studio, e continuare a contribuire, con il sapere accademico che le è proprio, alla crescita della consapevolezza che la guerra, per usare due note espressioni di Papa Benedetto XV, è sempre “un’inutile strage”[9], ed è il “suicidio” del vivere civile.
+ Enrico dal Covolo
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NOTE
[1] Sul tema si rinvia a Flavio Felice – Paolo Asolan, Appunti di dottrina sociale della Chiesa. I cantieri aperti della pastorale sociale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, cap. IV: “La comunità politica nazionale e internazionale”.
[2] Giovanni XXIII, Pacem in terris, 11 aprile 1963, n. 18.
[3] Giovanni XXIII, Pacem in terris, nn. 36, 39, 45.
[4] Cfr. Paolo VI, Discorso all’ONU, 4 ottobre 1965; Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la celebrazione del 50° di fondazione, 5 ottobre 1995; Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 18 aprile 2008.
[5] Cfr. Immanuel Kant, Per la pace perpetua, Editori Riuniti, Roma 1996.
[6] Cfr. Luigi Sturzo, La Comunità internazionale e il diritto di guerra [1928], Opera Omnia, Prima Serie, 2, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003.
[7] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate, 29 giugno 2009, nn. 57, 67.
[8] «L’attuazione del bene comune costituisce la stessa ragione d’essere dei poteri pubblici»; Giovanni XXIII, Pacem in terrisivi,n. 49. «Ciò significa che i poteri pubblici della comunità mondiale devono affrontare e risolvere i problemi a contenuto economico, sociale, politico, culturale che pone il bene comune universale; problemi però che per la loro ampiezza, complessità e urgenza i poteri pubblici delle singole comunità politiche non sono in grado di affrontare con prospettiva di soluzioni positive»: ivi, n. 48.
[9] Cfr. Benedetto XV, Dès le début, indirizzato ai Capi dei popoli belligeranti, invitandoli a trovare la via per una pace «giusta e duratura», 1 agosto 1917: «Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate, e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage».