La morte di un ragazzo di 15 anni spezza il cuore non solo ai suoi genitori e parenti. Eppure l’amore cristiano è capace di far accettare una tale sofferenza e trasformarla in tante grazie.
E’ questa la storia del Servo di Dio, Carlo Acutis.
A raccontarne la storia cercando di comprendere i misteriosi disegni dell’amore divino è stato padre Francesco Occhetta s.j, che ha appena pubblicato il libro “Il Servo di Dio Carlo Acutis – La vita oltre il confine” (editrice Velar).
Ne riportiamo l’Introduzione.
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Davanti alla morte la speranza di ogni uomo è messa alla prova. Non solo:quando si tratta della malattia e della morte di un ragazzo, la stessa vita umana sembra oscillare sul crinale dell’incomprensibilità. Eppure esistono testimonianze che entrano nel buio della ragione come un raggio di sole e riscaldano il cuore di chi ha smesso disperare.
La vita di Carlo Acutis è uno di questi raggi di sole. Anzi è stata la luce di un fulmine in una notte d’estate che ha vinto il buio delle paure e dei non sensi e ci permette di vedere che cosa c’è realmente oltre la notte della vita.
Carlo si ammala a 15 anni, nei primi giorni dell’ottobre 2006. Tutto fa credere ad una influenza, ma, dopo aver fatto gli accertamenti clinici, i medici pronunciano la loro diagnosi: “È una leucemia fulminante”. Il 12 ottobre, nel giorno in cui viene venerata Maria, la madre del Signore, Carlo lascia questo mondo. Il suo corpo è vegliato da un pellegrinaggio continuo di persone che lo hanno conosciuto.
La Messa di esequie è gremita. Gli stessi genitori dicono che, insieme a un dolore struggente, che solamente chi dà la vita può capire, avvertono una pace segno non di “una fine” ma di “un con-fine” da vivere con il loro figlio Carlo. Ma c’è di più. Dal momento in cui Carlo ha lasciato questo mondo non cessano di arrivare testimonianze, racconti, ricordi ed e-mail da molte parti del mondo che hanno un denominatore comune: per coloro che lo incontrano Carlo continua ad essere vivente oltre il confine della vita.
Basterebbe digitare in un motore di ricerca “Carlo Acutis” per constatare che ci sono più di 2.500 siti e blog in ogni lingua che parlano di lui. Tra i suoi Profili su Facebook vi sono quasi 4.000 iscritti e i siti a lui dedicati hanno avuto circa 400.000 visite. Insomma, siamo davanti a mille segni che, anche per i più scettici, ci fanno pensare a una vita che va oltre il confine della vita stessa.
Il suo parroco, mons. Gianfranco Poma, ha detto di lui: “Era un ragazzo assolutamente normale, ma con un’armonia assolutamente speciale”.
La vita può essere breve ed è per tutti fragile, ma per Carlo andava vissuta nella sua pienezza senza sprecarla. Per questo motivo ripeteva: “Tutti nascono come degli originali, ma molti muoiono come fotocopie”. È l’invito a non sprecare la vita e a ricercare la felicità vera: “La tristezza – diceva – è lo sguardo rivolto verso se stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio”.
Davanti all’eredità della vita di Carlo ci possiamo chiedere: che cosa significavano per lui le parole amore, dolore, gioia, sofferenza? Domande che ci portano a riflettere su cos’è per noi la morte e perché un giovane muore.
Nelle parole di Paolo VI ai giovani nel messaggio di chiusura del Concilio (7 dicembre 1965), sembra di ritrovare le tracce della sua vita: “Rifiutate di dar libero corso agli istinti della violenza e dell’odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie. Siate: generosi, puri, rispettosi, sinceri. E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale!”.
Lo premettiamo subito. Le righe che seguono non sono un elogio di un ragazzo superman. Racconteranno alcuni particolari, che sono stati raccolti come un puzzle da diverse fonti che non si conoscono tra loro. Sono solamente qualche pennellata di colore dei quindici brevi anni di un ragazzo normale, in cui tanti ragazzi possono rispecchiarsi. Per tutti è chiaro un aspetto: proprio perché ha vissuto una vita normale, Carlo ha lasciato tracce in molti cuori e questo continua a “provocarci” per “uscire da noi” e dalle nostre sicurezze e incontrarlo senza pregiudizi e paure.
Carlo sceglie di camminare nel viaggio della sua vita come l’uomo biblico. Poteva scegliere altri cammini, forse più di moda e passeggeri, ma non lo ha fatto. Segue la massima del suo mito di informatica, Steve Jobs: “È solamente dicendo ‘no’ che puoi concentrarti sulle cose veramente importanti”.
Per le sue origini e le sue capacità, Carlo poteva scegliere di camminare come il mitico Narciso che per la sua vanità e insensibilità si innamora di sé e si pietrifica. È il rischio che si corre mentre si diventa uomini. Pensare solo a sé senza pensare agli altri e a Dio.
Per i mezzi che aveva a disposizione Carlo poteva imitare il viaggio d’Icaro che sfida Dio volando verso il sole. Fuggire da Creta non era un’impresa molto facile.Ma Icaro sceglie di volare come suo padre Dedalo a cui però disobbedisce e va dritto verso il sole, inebriato dalla velocità delle sue grandi ali.
È il cammino di chi pensa che invece di obbedire (ob-audire, dare ascolto) è meglio sfidare Dio e le sue leggi. Il carattere tenace e geniale di Carlo poteva fargli intraprendere un viaggio come quello di Ulisse che lotta contro un destino duro e vince molte prove. Carlo però non sceglie di partire e di ritornare nella sua Itaca, nel luogo cioè da cui era partito.
Sceglie il cammino di Abramo, quello che chiede di obbedire al comando di uscire dalla propria terra e di andare dove Dio lo conduce. È il cammino degli apostoli che sono chiamati a seguire Cristo fino a Gerusalemme.
Carlo non smette di camminare nemmeno quando il suo corpo è segnato dalla malattia. Lo aveva previsto da tempo: “Morirò giovane”.
Ma non si ferma. Si nutre di Eucaristia e cena con il Signore per poter essere con lui e come lui. In questo cammino sperimenta il primo dovere dell’amore, quello di essere con l’amato anche quando scende la notte.