Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXX.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura spirituale.
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Senza umiltà la preghiera degenera in presunzione
Rito romano
XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2013
Sir 35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14
Rito ambrosiano
I Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At 13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20
1) La preghiera deve essere umile.
La Liturgia della Parola di Domenica scorsa ci ha insegnato che la preghiera per essere vera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e costante. Oggi la stessa Liturgia completa l’insegnamento, sottolineando che la preghiera è vera quando è umile.
Nell’introduzione al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell’umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11). E questa umiltà è osservata nel Padre nostro. Infatti, si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole”.
Per pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia” (Sal 33/34, 19 e 23). Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come” viviamo il nostro rapporto con Dio.
Di conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di raccoglimento dicendo: “Signore, prima di parlare con me, perdonami” (Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei -Antifona ambrosiana).
Esaminiamo ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
Iniziamo dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
Però Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché? Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio» e Gli fa l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante, facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti ringrazio» detto all’inizio non prega: non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
Passiamo ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»[1] (Lc 18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei romani invasori e pagani, ed è esoso nell’esigere le tasse. E’ certamente un peccatore, ma è consapevole di esserlo peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. Quest’uomo ha il capo chinato ma il cuore è proteso verso l’Alto, da cui attende la misericordia.
La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio nella preghiera e, ancor prima, nella vita è quello di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. Le opere buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri.
2) Il perdono ricrea
Dunque, il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. Fu perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come quello di un bambino.
Come Dio ha reso “giusto” il pubblicano peccatore, egli è “propizio” a noi quali peccatori sinceramente pentito, e saremo resi “giusti”, cioè riammessi nella divina amicizia, resi santi, purificati, restituiti alla vita di fede.
Il fariseo è condannato. Perché? Perché disse “non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini” – e fin qui la genericità non offende nessuno – ma proseguì “o anche come questo Pubblicano” (Lc 18, 11). Così si mise contro il suo prossimo, lontano e vicino, nell’ingiustizia versi di esso e, quindi, verso Dio, che aveva detto: “Misericordia voglio più che sacrificio” (Os 6,6, ) e lo aveva confermato per bocca del Suo Figlio: “Andate e imparate che significa. Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13) e insistito: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio più che sacrificio allora non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12,7). Il peccato del fariseo formalmente sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa condanna: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarò esaltato (Lc 18, 14). E la stessa frase già usata per gli invitati presuntuosi che volevano occupare i posti migliori al banchetto (cfr. Lc 14, 11).
Imitiamo Cristo che non esaltò se stesso anzi si “svuotò” la sua Divinità nella più abbietta umiliazione quella della croce. Per questo Dio l’ha esaltato sopra ogni altro nome (cfr. Fil 2.)
Le Vergini consacrate sono chiamate a vivere in modo speciale quest’umiltà di Cristo nella preghiera e nella vita. Queste donne hanno accolto in modo particolare l’invito del Salvatore: «Imparate
da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt 11, 29). “E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo» – il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).«Ha guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria – perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento”. (Origene, Omelie sul Vangelo di Luca, VIII, 5-6). Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse vivono il modo particolare lo spirito della Vergine Maria e “se secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il Verbo di Dio” (Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo prega su di loro: “Gesù nostro Signore, fedele sposo di quelle che a Lui sono consacrate, vi doni, con la sua Parola, una vita felice e feconda” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel mondo intero.
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Lettura spirituale
Card. John-Henri Newman
Umiltà di spirito e santità
Le parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore » (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e in epoche più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno, comuni a ogni religione. Ma la particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, consiste in questo: il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti esemplari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo l’estatica, aperta confessione.
È una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel sangue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi continuano a parlare solo delle proprie infedeltà. I giovani senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).
Siamo, lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di perfezione proprio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) – « Tutti hanno peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23) – « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) – insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.
(Estratto dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind, 1856 SVO, 2, 15-29)
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NOTE
[1] Il testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più, perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente. Inoltre lui sa che le parole non a nulla servirebbero. Si rimette semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole, tutto perdona: tutti riconcilia.