A distanza di oltre cinquant’anni dall’elezione a papa, ora in vista della sua glorificazione risuona più che mai ingiuriosa la definizione attribuita al celebrato Indro Montanelli: “Paolo Sesto, Paolo Mesto”. Giulio Andreotti, invece, che l’aveva conosciuto fin dai tempi dell’Università, gli aveva rispettosamente suggerito: “All’esempio e agli insegnamenti di Vostra Santità è comunque riservata, nel mondo, la sorte dei seminatori”.
Ed egli fu un seminatore audace. Per quello che c’interessa qui, sono sei le “seminagioni” esemplari: vivere anche nei fatti «una fede robusta» in un tempo arduo; avere sempre come modello il Cristo sofferente; considerare la Chiesa «l’anima del mondo»; decidere di non dire sempre “sì” alla maggioranza ecclesiale; ridare la dignità episcopale a chi l’aveva, da due decenni, ingiustamente perduta; coltivare amicizie elette.
La sua fede, «sostanza di vita nella situazione storica», lo spinse a porregesti profetici. Ad esempio, quando a Gerusalemme abbracciò Atenagora; quando a Roma baciò i piedi a Melitone; quando, nell’entrare in diocesi d Milano sotto la pioggia, scese dalla macchina e ne baciò il suolo; quando, venuto a sapere che l’amico Aldo Moro rischiava una morte violenta, scrisse ai brigatisti rossi una lettera vibrante.
Dal dialogo tra Jean Guitton e Paolo VI. Lui gli ricorda una citazione: «Il genio del ragno consiste, osserva Schweitzer, nel tendere i fili intorno ad un centro. Più i fili sono tesi, più la figura è bella. Ma se allentano, tutto si confonde». Il Papa la fa sua e l’applica all’istante: «Il centro è Gesù, è Gesù crocifisso. Dopo aver sacrificato tutto, san Paolo medita di immolarsi […] al bisogno di perfezione, che in lui diventa tormento».
Montini aveva capito che il cristianesimo non poteva isolarsi dalla realtà del mondo. Pensava ad un cattolicesimo dinamico, che doveva essere orientato ugualmente alla propria riforma e a quella del mondo. Durante il concilio il suo desiderio era quello di raggiungere un consenso ampio, riducendo al minimo la minoranza degli oppositori, in modo da offrire al mondo, dopo tante discussioni, una Chiesa-comunione.
Detestava procurare dispiacere, ma ricordava che, se la moglie illegittima di Erode aveva chiesto al re di far tagliare la testa a Giovanni, era perché il profeta non aveva voluto cedere su un punto essenziale; ricordava poi le parole di san Ignazio di Antiochia: «Sii attento alle circostanze, ma soprattutto a ciò che è eterno». E nel luglio 1968 disse “no” alla contraccezione, nonostante il parere contrario della maggioranza.
Paolo VI conosceva molto bene la penosissima vicenda del salesiano Giuseppe Cognata (†1972), durata ventidue anni. Consacrato vescovo di Bova nel 1933 e accusato di cose infamanti dal barone Fassini, fu sospeso dal ceto dei vescovi il giovedì 21 dicembre 1939 e parzialmente riabilitato da Giovanni XXIII. Eletto papa, Montini, dopo tre mesi, gli diede il titolo di vescovo di Farsalo e mons. Cognata poté partecipare al Vaticano II.
Il suo più famoso confidente, Jean Guitton, scriveva: «Mi è impossibile dire che cosa io rappresentassi per lui: non ero un subordinato, un discepolo, un compatriota o uno straniero, e neppure un parente o un amico d’infanzia. Non avevo nulla da chiedergli: egli non aveva nulla da darmi. Qui risiedeva il mistero della scelta inspiegabile, immeritata, che è l’amicizia allo stato puro, molto simile a ciò che nella fede si chiama grazia».
Ora è giunto il momento di mettere a confronto le sei affinità esemplari del beato Paolo VI bresciano con quelle del beato Tommaso bergamasco. La prima fonte sarà la biografia, scritta in latino tacitiano con traduzione a fronte, del medico trentino Ippolito Guarinoni (†1654), discendente da una famiglia di medici: Detti e fatti, profezie e segreti del frate cappuccino Tommaso da Bergamo, Brescia, Morcelliana 2007 (in seguito: Guarinoni).
Il Guarinoni così racconta il “primo segreto” ricevuto da lui: «Mentre fra Tommaso, cappuccino amante di Dio, conversava con me di cose divine […], pronunciò con foga queste parole: «La nostra santa fede è cossì certa e cossì vera, che io non più la credo, ma la so; anzi sì, che io la so”. [… ] Egli fece chiaramente capire che quelle verità […] le aveva realmente viste in ripetute visioni ed estasi» (Guarinoni, pp. 104-105).
Fin dal noviziato, 1580-81, «il pio fra Tommaso» fu educato dai cappuccini alla scuola del «nudo e umile Crocifisso». Negli anni a seguire, riuscì ad imprimerlo nella mente a tal punto da dargli «possessione pacifica». Alla fine, arrivò a dimorare nel suo Cuore e di respirare in Lui «giorno e notte». Non mentiva quando aggiungeva che era il Cuore di Gesù che, «per ridondanza d’amore», lo faceva parlare e operare.
Fratello questuante per i frati e i poveri del convento, sul territorio dove si trovava – in particolare a Rovereto e nel Tirolo – fu un cercatore di anime, un suscitatore di vocazioni sia maschili che (soprattutto) femminili; come anche “apostolo senza stola” (fra le popolazioni) e consigliere ricercato (fra i principi della Chiesa e quelli della Casa d’Austria), allo scopo di difendere e diffondere “il vangelo del concilio di Trento”.
Ebbe il santo ardire di disapprovare l’imperatore d’Austria Ferdinando II – paragonabile al presidente degli Stati Uniti Barack Obama (e forse anche più) -, quando questi, nel 1628, decise di inviare contro Mantova un esercito di trentaseimila lanzichenecchi, per risolvere il problema della successione al trono. Tommaso non fu ascoltato, ma sull’imperatore e sulla Germania piovvero, nefaste, le conseguenze profetizzate.
Un podestà di Trento, chiamato Restellini, in base ad alcuni testimoni era stato incriminato di aver violata una ragazza di tredici anni. Costei era stata messa al sicuro, perché nessuno potesse parlarle. In quei giorni passava per Trento, proveniente da Loreto, «l’amante di Dio» fra Tommaso. Saputo dell’accaduto e convinto dell’innocenza del podestà, fece i passi necessari e gli restituì completamente e pubblicamente la fama.
Era risaputo dai notabili quanto «l’innamoratissimo di Dio” fra Tommaso fosse «stimato e onorato» dall’arciduca del Tirolo Leopoldo V. Il quale un giorno gli disse: «”Fra Tommaso, venite nel palazzo ducale quando vi piace, di giorno e di notte”». E quando fra Tommaso l’andava a trovare, l’arciduca stava con lui famigliarmente – «il più delle volte tre e anche quattro ore» -, sospendendo subito ogni udienza o problema di Stato.
Concludiamo queste note con quanto auspicava il beato Paolo VI, ricordando il quarto centenario della nascita del beato Tommaso (1563-1963): «Possa il ricordo di quell’umile figlio della forte terra bergamasca spingere i sacerdoti e i fedeli a sempre maggiore donazione di sé nell’adesione consapevole alla verità rivelata, nell’impegno di testimonianza cristiana in tutti i settori della vita». (Dal Vaticano, 22 novembre 1963).
***
Padre Rodolfo Saltarin è il vicepostulatore della causa di beatificazione di Tommaso da Olera.