Dal versante meno prevedibile arriva la più spettacolare dimostrazione di come la rete non sia un feticcio, né un prodigio, ma solo un linguaggio che profila le figure sociali, che la praticano esattamente come fu la fabbrica nel secolo scorso.
La trasparenza e il coraggio con cui la Chiesa guidata da Papa Francesco ha condotto il Sinodo sulla Famiglia sta sbigottendo il mondo.
Il Sinodo sulla famiglia che si è chiuso ieri, segna forse la prima ed unica, al momento, occasione di un esplicito confronto religioso e culturale indotto dall’irruzione della comunicazione a rete in una grande comunità di pensiero e di attività, quale è la Chiesa.
Sembra davvero stupefacente che i circuiti della comunicazione, a cominciare dai languidi talk show televisivi, non abbiano ancora registrato e trovato il modo di raccontare questo passaggio epocale.
È segno che ormai il sorpasso da parte degli utenti della comunicazione rispetto ai mediatori è largamente consumato.
Io non sono un esperto di cose cattoliche e tanto meno un attento osservatore dei movimenti che modificano equilibri e senso comune del Vaticano. Ma come semplice giornalista, come addetto alla fabbrica della comunicazione registro uno scossone potente.
Già nei mesi scorsi, quando fu annunciata la convocazione del Sinodo notai una straordinaria novità, di metodo, dunque di merito al vertice della chiesa.
Per la prima volta, uno dei poteri più verticali del pianeta si apriva ad una logica orizzontale da networking, procedendo ad una consultazione di massa sui temi nevralgici della famiglia e della sessualità, in tutta la galassia cattolica.
Papa Francesco sembrava adottare il cosiddetto “paradigma Arguilla”, dal nome del teorico militare americano che lo ha elaborato, che recita: per battere un network bisogna farsi network.
Il primato del Pontefice si apriva ad una condivisione su temi fondamentali della dottrina con il senso comune dell’intera comunità. Si trattava di una scelta che faceva facilmente prevedere scosse sismiche squassanti. E tale è stato. I circa duecento vescovi chiamati a Roma a discutere nel Sinodo si sono trovati, di fatto, incalzati nel loro primato teologico da quanto era affiorato nella consultazione capillare.
Non solo, ma il Papa decideva anche di procedere per condivisioni interne successive più che per rivelazioni contrattate, e dava al Sinodo un carattere processuale, di una discussione a focus, dieci circoli di confronto, che si sarebbe prolungata oltre i lavori dell’istituzione vescovile, abbracciando nell’anno che seguirà un ampio dibattito che raccoglierà il senso comune dei fedeli.
Solo fra un anno, dopo l’immersione nel Popolo di Dio, si tireranno le conclusioni che saranno verità di fede.
Cosicché il metodo, per molti versi, è stato di gran lunga più eversivo del merito, nel corso del dibattito.
Rimane aperta la discussione su come procedere con una pastorale che affronti i nodi del riconoscimento o meno delle famiglie di divorziati o del rapporto con gli omosessuali ma, ancora di più, lo è una procedura che ineluttabilmente smantella gerarchie e poteri, ridisegnando modalità del tutto nuove nella gestione e mediazione del messaggio cristiano.
Il Sinodo per le forme spettacolari che ha assunto e sopratutto per l’assoluta trasparenza a cui si è sottoposto, dimostra che si sta giocando una partita campale.
La strategia di Papa Francesco riprende peraltro un filo che viene da molto lontano, e che forse era stato rallentato. Penso all’intuizione di 50 anni fa, di papa Giovanni XXIII di indire il concilio Vaticano II come scelta per ritrovare, una “corrispondenza più perfetta all’autentica dottrina, anche questa però studiata ed esposta attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del mondo moderno”.
La letteratura del mondo moderno oggi è la rete, e l’ascolto ne è la sua grammatica.
In questo contesto appaiono forse più risibili le incertezze e le domande che solitamente circolano nei consegni sulla comunicazione: ma davvero è questo il nuovo alfabeto? Ma davvero i partiti dovranno essere ripensati? Sarà mai possibile una democrazia senza la centralità dei mediatori? Ma la TV generalista potrà mai essere sostituita? Quali sono le forme di giornalismo che potranno mai assicurare l’autorevolezza dei professionisti?
Temi che diventano patetiche resistenze corporative quando si osserva che una delle comunità più solenni, come appunto la Chiesa Cattolica, cerca proprio nei nuovi linguaggi condivisi la strada per dare forza e attualità al messaggio divino.
Una forza che vuole mantenersi libera ed autonoma rispetto anche alle suggestioni delle culture più moderne. Pensiamo al tema della riprogrammazione della vita, o dei nuovi metodi per avere figli, o le nuove configurazioni del nucleo familiare. Sono temi colossali che si intrecciano direttamente con le forme di relazioni digitali. Il Papa, per riconquistare un protagonismo sovrano, sceglie quella che il cardinale Walter Kasper ha battezzato come “teologia dell’ascolto”.
Credo che siamo solo all’inizio di una straordinaria nuova e sorprendente storia umana. E chi si occupa di comunicazione farebbe bene a seguirla, da molto vicino. Lo stesso dibattito sulla rete-partito, in questi giorni, sulla scia della nuova commissione Rodotà, costituita dalla presidenza della Camera, dovrebbe decifrarne la lezione: se la rete è strumento e linguaggio di una rivisitazione di principi primari della convivenza può essere appaltata agli Stati?
Ma ancora, con maggiori ragioni, potrà mai essere guidata da algoritmi privati e speculativi?
E non sono questi nuovi irruenti poteri di linguaggi detenuti dai grandi imperi del software, la vera minaccia da regolare con rigide norme invece di predicare ormai banali diritti di accesso ad un nuovo mercato?
Chi si occupa di politica e di diritti dovrebbe concentrarsi su questo Sinodo e pensarne uno proprio, condiviso e deliberativo.