La fede religiosa dei nostri antenati cristiani nelle decorazioni funerarie del III e IV secolo

I temi più popolari nell’arte funeraria paleocristiana analizzati da Jutta Dresken-Weiland in un volume edito dalla LEV

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Quali erano i pensieri di un cristiano, del III o IV secolo, al momento di commissionare le decorazioni del proprio cubiculo nelle catacombe o del proprio sarcofago? Quali temi e quali immagini erano più importanti per lui? A chi erano rivolte le immagini delle rappresentazioni? Può l’arte rivelarci i sentimenti che lo animavano? Questi e altri interrogativi sono posti e svolti nel libro “Immagine e parola. Alle origini dell’iconografia cristiana” (edito dalla L.E.V. nel 2012) di Jutta Dresken-Weiland, che, con un’attenta analisi dei temi più popolari nell’arte funeraria paleocristiana, conduce il lettore negli oscuri ambienti delle catacombe, che si rivelano, attraverso le immagini, luoghi “luminosi”, in cui i cristiani esprimevano la propria fede nella vita eterna e nella resurrezione. L’autrice affronta tutti i temi figurativi, prestando particolare attenzione alla loro collocazione, alle loro citazioni nella letteratura teologica e, quando possibile, alle iscrizioni funerarie ad essi connesse.

 Il primo passo per comprendere le immagini funerarie paleocristiane è chiedersi a chi fossero rivolte. Partendo dalla considerazione che le tombe erano chiuse da una porta e i sarcofagi marmorei erano spesso tumulati direttamente nella terra, Jutta Dresken-Weiland propone l’interessante tesi che le immagini e le iscrizioni fossero rivolte ai defunti, che in antico si credevano presenti nei sepolcri.

Analizzando le pitture catacombali e le immagini scolpite sui sarcofagi, il libro ci spiega come, nelle catacombe, appaiano con maggiore frequenza i temi dell’Antico Testamento, mentre nei sarcofagi ricorrano più spesso quelli del Nuovo. Perché? Secondo la brillante tesi dell’autrice questo fenomeno è dovuto al diverso tipo di committenza. Infatti coloro che venivano sepolti nei sarcofagi appartenevano per lo più all’elite socio-culturale, e ciò sarebbe testimoniato, sia dalle iscrizioni, sia dall’elevato costo della cassa marmorea; mentre i committenti delle pitture catacombali dovevano appartenere al ceto medio, come è desumibile anche dalla minore qualità e originalità delle immagini. Fu quindi l’elite culturale cristiana a dare impulso all’evoluzione dell’iconografia funeraria, commissionando pregiati sarcofagi in cui si stagliavano nuove immagini, incentrate appunto sul Nuovo Testamento.

Uno degli argomenti cardine del libro è il tema della resurrezione, molto frequente nelle rappresentazioni sepolcrali. Inizialmente, nelle catacombe, questo tema veniva illustrato attraverso le storie di Giona e la resurrezione di Lazzaro.  La figura di Giona, che aveva una grande diffusione nelle rappresentazioni funerarie, deve la sua popolarità ad un passo di Matteo (12, 38-40), dove Gesù, rispondendo ad alcuni scribi e farisei che gli chiedevano di fargli vedere un segno, afferma: “Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra.”Nelle catacombe si possono ammirare le scene della storia di Giona generalmente sui soffitti o sugli intradossi degli arcosoli. Giona lanciato in mare dai marinai, Giona sputato dal grande pesce e il riposo di Giona sembrano essere i temi che i cristiani apprezzavano di più nella storia del profeta. Mentre Lazzaro, definito da Tertulliano (155-230) come “l’esempio più formidabile della resurrezione”, rappresenta per i primi autori cristiani la prefigurazione della resurrezione dei morti nel giorno del Giudizio Universale. Nella relativa iconografia Lazzaro è generalmente rappresentato avvolto nelle bende, dentro ad un sepolcro, spesso sopraelevato, con accanto Cristo, che con una virga (bastone) compie il miracolo della resurrezione. Tuttavia le immagini della resurrezione di Lazzaro, che erano evidentemente le più efficaci e dirette nel trasmettere la speranza nella resurrezione, iniziano a cadere in disuso nei sarcofagi a partire dal secondo terzo del IV secolo. L’autrice si interroga su questo singolare fenomeno e propone al lettore una illuminante soluzione. Un tema così importante non poteva infatti essere abbandonato senza essere sostituito da un altro più rilevante; ed in proposito rileva che, a partire dal 330, appare scolpita sui sarcofagi la resurrezione di Cristo. Essa viene rappresentata come un tropaion: unacroce decorata con una corona di alloro al cui centro è posto un cristogramma, ed alla cui base giacciono due soldati seduti e dormienti, che si riferiscono ai guardiani del sepolcro di Cristo. Il tropaion (parola greca che significa trofeo) era originariamente, presso i greci e poi presso i romani, un monumento di vittoria piantato in terra, sul quale erano affisse le armi sottratte al nemico; ed intorno ad esso venivano raggruppati i soldati sconfitti, per sottolineare, con solennità, la vittoria. L’immagine del tropaion non è quindi un invenzione dei cristiani, ma essi la riutilizzarono in una nuova chiave per rappresentare la resurrezione e la vittoria di Cristo sulla morte. Risulta quindi che l’affermazione del tropaion a discapito della resurrezione di Lazzaro sia dovuta al desiderio, da parte dei cristiani dell’ultimo terzo del IV secolo, di avere un immagine più “forte”, che non si limitasse esclusivamente al tema della resurrezione, ma che affermasse, attraverso l’immagine della resurrezione stessa, Cristo come vincitore e sovrano.

Questi sono solo alcuni dei tanti interessanti argomenti trattati nel libro “Immagine e parola”, che si rivela una preziosa guida per chiunque intenda conoscere nel profondo l’anima dei nostri antenati cristiani, e scoprire come essi esprimevano la loro speranza e la loro fede nella vita eterna. Scritto con stile chiaro e piacevole, il libro immerge pienamente il lettore nei secoli che si rivelarono cruciali per la diffusione del cristianesimo.     

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Giovanni Argan

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