Dal carcere di Rebibbia alla rinascita in una fraternità francescana

La storia di Maddalena: giovane ex detenuta, ora ospite della comunità Ripa dei Sette Soli, che denuncia le condizioni di vita disastrose all’interno del penitenziario romano

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“Ciò che mi ha ferita di più in carcere è stata la sensazione di sentirmi abbandonata e di dover combattere ogni giorno per riuscire a difendere la mia dignità di essere umano. Il carcere viene considerato terra di nessuno ma dietro quelle mura non ci sono fantasmi, ma persone. La vita continua ad avere un significato anche dietro le sbarre, seppur la società voglia farti credere il contrario, trattandoti come un rifiuto”.

Maddalena è una ex detenuta del carcere di Rebibbia arrestata nel 2010 per spaccio di droga: “Avevo provato l’eroina in passato ma non ero mai entrata nel tunnel della tossicodipendenza – racconta a ZENIT – ho perso i miei genitori all’età di 18 anni e ho sempre dovuto badare a me stessa con le mie sole forze. Lavoravo in un ristorante, avevo una casa, ero indipendente. Ad un certo punto, la mia vita non mi è bastata più. Ho chiesto a degli amici che sapevo nel giro dello spaccio se potevano procurarmi un lavoro. Ho iniziato a vendere l’eroina in un appartamento e dopo poco tempo, ho venduto anche la cocaina. Nel frattempo, ho incominciato a fare uso sia di cocaina che di eroina”.

La droga stava portando lentamente l’animo e il corpo di Maddalena verso la distruzione: “L’eroina era diventata il centro della mia vita: avevo una casa, i soldi, la droga, cosa potevo desiderare di più? – racconta – ero diventata uno scheletro ambulante: pesavo 60 kg, non dormivo e non mangiavo, il mio unico pensiero era riuscire a procurarmi una dose.”

Pochi giorni prima del Natale del 2010, quattro “Falchi” della Polizia di Stato fanno irruzione nell’appartamento di Maddalena: la perquisiscono e le trovano 28 pezzi di eroina. Incominciano a picchiarla per conoscere il nome del suo fornitore ma lei non dice nulla: “Nonostante le botte, ero serena. Pensai che finalmente in carcere avrei avuto l’opportunità di disintossicarmi e di ricominciare a vivere.”

Processata per direttissima, Maddalena viene condannata a due anni e un mese da scontare nel carcere di Rebibbia: per i primi due mesi, Maddalena resta nell’infermeria del carcere dove inizia a prendere il metadone che viene fornito dal SerT, il Servizio per le Tossicodipendenze.

“Sono rimasta per giorni con gli stessi vestiti e la stessa biancheria di quando mi avevano arrestata – ricorda Maddalena – ho chiesto più di una volta della biancheria pulita e una felpa ma per ottenerli ho dovuto fare una richiesta scritta che mi è stata accettata dopo una settimana.”

Nell’infermeria del carcere, l’assistenza sanitaria e le condizioni igieniche sono insufficienti: “Ci sono solo 2-3 infermieri per 300 detenute. Il medico per ogni malessere ti prescrive la tachipirina, senza preoccuparsi di visitarti. Ci sono persone che hanno scoperto dopo mesi di avere tumori che fino a quel momento avevano curato con l’aspirina. Per le visite ginecologiche le detenute devono aspettare almeno 5-6 mesi. Per gli scarsi controlli medici ci sono stati casi di pidocchi e addirittura di scabbia tra le detenute. Io sono stata male per parecchio tempo prima di poter fare un’analisi e scoprire che avevo un problema alla tiroide.”

Dopo due mesi trascorsi in infermeria, a Maddalena le viene assegnata una cella che divide con altre quattro persone: “Nella mia cella c’erano due letti a castello, un letto singolo, un tavolo, il wc, un lavandino con acqua fredda. Per farmi il bidet usavo le bottiglie d’acqua. Le docce sono in comune e sono aperte dalle 8 di mattina alle 7.30 di sera ma sei costretta a lavarti con acqua calda d’estate e con quella fredda d’inverno.”

Ogni piano del carcere ospita 75 detenute che dovrebbero essere controllate da almeno 5-6 agenti: “In realtà per ogni piano c’è un solo agente di guardia – racconta Maddalena – quando ha nevicato a Roma nel febbraio del 2012, siamo rimaste senza agenti per un paio di giorni, completamente allo sbaraglio.”

Maddalena ricorda di come le giornate in carcere durassero all’infinito: “Mi svegliavo alle 6 del mattino, alle 7 facevo colazione e pulivo la cella. Alle 8.00, l’agente apriva la cella e trascorrevo la mia giornata camminando lungo il corridoio. L’ora d’aria la passavo in un campetto di pallavolo cementato insieme ad altre 300 detenute. Solo dopo un anno ho avuto la possibilità di lavorare: portavo la spesa alle detenute che potevano permettersi di comprare qualcosa con i loro soldi”.

Per ottenere un colloquio con lo psicologo, Maddalena doveva compilare una richiesta per poi essere ricevuta dal medico dopo 10 giorni: “Per calmarti ti imbottiscono di psicofarmaci: ho visto ragazze diventare degli zombie per l’uso eccessivo degli antidepressivi”.

I figli delle detenute ospiti al nido del carcere,  subiscono un trattamento molto simile a quello riservato alle loro mamme: “Al nido le condizioni igieniche sono pietose – afferma Maddalena –  i bambini non hanno un loro spazio giochi, gattonano in mezzo al corridoio spesso sporchi e malaticci”.

Uscita dal carcere, Maddalena viene portata in una casa famiglia gestita dal Comune: “Non si respirava per nulla un’aria di famiglia in quel luogo – ricorda Maddalena – dividevo l’appartamento con altre tre persone che vedevo poco e con cui non avevo legato. Gli operatori venivano un paio di volte a settimana per portarci la spesa e per un breve colloquio. Sapevo che potevo rimanere in quella casa solo per 6 mesi e che, se non avessi trovato un lavoro in fretta, sarei finita per strada”.

Il pensiero del futuro incomincia a tormentare Maddalena che lentamente, scivola nella depressione e cade di nuovo in tentazione: si droga ma questa volta si sente male e viene cacciata dalla casa famiglia.

Ho chiesto ospitalità ad una mia amica anche lei tossica ma non potevo rimanerci a lungo – spiega Maddalena – sarei ricaduta nel tunnel e io desideravo invece rinascere”.

In quel momento, finalmente qualcuno prende per mano Maddalena: un’educatrice di Rebibbia le parla della possibilità di essere accolta in una fraternità francescana nata a Valmontone. Maddalena chiama Padre Domenico Domenici, responsabile del progetto RIPA – Rinascere Insieme Per Amore: “Padre Domenico mi diede un appuntamento ma io ero preparata all’ennesima delusione – continua Maddalena nel suo racconto – arrivata da lui, cominciai a piangere come una bambina e gli raccontai tutta la mia storia”.

Finalmente per Maddalena è arrivata la tanto desiderata rinascita: “Da quando sono ospite della fraternità, la mia vita è cambiata: sto imparando a pregare, mi dedico, con l’aiuto di una volontaria, ad un’attività artigianale che mi permette di creare qualcosa di bello anche se nel mio passato ho venduto morte. La sera mi ritrovo a scherzare con Dio, a ringraziarlo della serenità che mi ha regalato e che spero a mia volta di donare agli altri. Quando guardo negli occhi Fra Roberto Bongianni, coordinatore della fraternità, il mio cuore trabocca di felicità e gratitudine per il dono di questa nuova famiglia”.

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Gaia Bottino

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