A pochi passi dalla Basilica di Santa Maria Maggiore (edificio su cui abbiamo disquisito durante le scorse settimane), nel cuore del Rione Monti (uno dei più estesi e significativi della Capitale), è presente un gioiello di rara bellezza, famoso soprattutto per il suo apparato musivo e decorativo: la Basilica di Santa Prassede.

In epoca romana l’area era densamente popolata e il settore compreso tra le terme di Diocleziano e la Suburra (comprendente anche la basilica di Santa Prassede che all’epoca era rappresentata da un semplice titulus) vedeva la presenza di numerose domus appartenenti ad esponenti di alto lignaggio situate nella parte più settentrionale (chiamata Vicus patricius), mentre nella zona più meridionale, formata dalla Suburra, era popolata da plebei e gente comune, divisa dall’area dei fori dal maestoso muraglione in pietra ‘gabina’ ancora oggi in parte visibile e facente da sfondo al foro di Augusto.

La situazione viene totalmente invertita durante l’epoca medievale, in quanto la scarsità d’acqua (gli acquedotti romani non erano ormai più attivi) costringeva la popolazione a stanziarsi presso le aree pianeggianti nei pressi del Tevere e in Campo Marzio. Ne derivò un grande spopolamento dell’area, destinata quasi esclusivamente alla coltivazione di orti e vigne, ma trainata da due delle più importanti basiliche-simbolo della cristianità romana: Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano.

In questo contesto la Basilica di Santa Prassede si pose, fin dall’età tardo-antica, come un luogo caratterizzato dal titulus Praxedis, terminologia che faceva riferimento al capostipite della famiglia, il senatore Pudente vissuto durante il I secolo d.C., convertito al Cristianesimo proprio dall’apostolo Paolo. Lui e le sue due figlie, Prassede e Pudenziana, subito il martirio, vennero sepolti presso le catacombe di Priscilla situate lungo la via Salaria.

La tradizione sostiene che il titulus Praxedis venne assegnato alla casa di Prassede, divenuta rifugio per i cristiani perseguitati dalle leggi romane e luogo di raccolta del sangue dei martiri che la stessa Prassede raccoglieva con una spugna e versava in un pozzo. Le leggende legate alla vita di questi martiri furono probabilmente scritte intorno al V-VI secolo, con l’aggiunta di alcune ridondanze mai verificate, nonostante numerose attestazioni storiche hanno comunque confermato l’esistenza di questi personaggi.

Il titulus Praxedis venne radicalmente rinnovato intorno al 780 grazie all’intervento di papa Adriano I (come attestato dal Liber Pontificalis), ma è grazie a Pasquale I che possiamo ammirare l’attuale impostazione dell’edificio elaborata nell’817, costruendo al di sopra di un edificio ormai in rovina l’attuale basilica, destinata alle reliquie dei martiri sepolti nel cimitero di Priscilla.

Il complesso ebbe una vita piuttosto movimentata nel XII secolo. Dapprima fu assegnato ai canonici regolari di Santa Maria del Reno (assegnazione revocata da Celestino III per cattiva gestione) e successivamente assegnato da papa Innocenzo III nel 1198 ai monaci di Vallombrosa, che ne detengono ancora la gestione.

Fu a partire dalla prima metà del XIII secolo che vennero avviate nuove attività edilizie miranti non soltanto all’allargamento e all’abbellimento del complesso ma anche al restauro delle parti esistenti. La navata centrale venne rimpicciolita con la creazione di due navate laterali mediante la costruzione di tre grossi archi e sei pilastri. Contemporaneamente venne costruito un grazioso campanile, che andò ad occupare uno spazio ricavato nella porzione sinistra del transetto, ‘sbilanciando’ visivamente l’intera ala della basilica. Fu probabilmente per questo motivo che alla fine del secolo venne costruita sul lato opposto del transetto una cappella detta ‘del Crocifisso’ che ha cosi restituito la simmetria all’interno del corpo di fabbrica.

Come gran parte delle chiese e delle basiliche romane, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo la basilica subì radicali rifacimenti che ne alterarono l’aspetto estetico ma la migliorarono dal punto di vista artistico. Il cardinale Antonio Pallavicini Gentili diede il via ad una serie di lavori che interessarono la zona ‘presbiteriale’, mentre a Carlo Borromeo si devono gli interventi che riguardarono il rifacimento della scalinata d’accesso, il portale centrale e la sacrestia, inserendo la copertura a volte nelle due navate laterali e realizzando gli otto finestroni della navata centrale.

Fu Alessandro de’ Medici a commissionare la ricca decorazione della navata centrale mentre si devono al cardinale Ludovico Pico della Mirandola (a partire dal 1725) ulteriori interventi presso il presbiterio ed il rifacimento della cripta in occasione delle indagini di ricerca delle antiche reliquie che la tradizione voleva sepolte nei sotterranei della basilica.

Al contrario di quanto si nota in alcune basiliche romane, gli interventi del secolo scorso hanno eliminato le superfetazioni e le aggiunte più recenti ripristinando, dove era possibile, l’impostazione medievale. Grazie a questa strategia nel 1918 venne rifatto il pavimento in stile ‘cosmatesco’ e circa un ventennio dopo venne eliminato lo strato d’intonaco che rivestiva la facciata, ripristinandone l’antico aspetto.

* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l'Università degli Studi di Roma de 'La Sapienza'. Esercita la professione di archeologo.