Da profugo a olimpionico: la lunga marcia di Abdon Pamich

Dall’esilio forzato ai trionfi a cinque cerchi e oltre, la storia di un campione dentro e fuori la pista

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“Fra gare e allenamenti di marcia ho fatto tre giri del mondo”. Poche parole, sintesi efficace di una vita intera dedicata allo sport e ai suoi valori sani anche oltre la carriera agonistica. È una lunghissima marcia quella di Abdon Pamich che inizia a Fiume in una terra di confine, tragico simbolo di vicende drammatiche della storia italiana ed europea del XX secolo.

Dopo aver abbandonato la propria città  e aver vissuto l’esperienza del campo profughi, l’adolescente Abdon si riunì a Genova con il padre e dalla Liguria partì la sua avventura nel mondo della marcia.  Ha vinto un oro e un bronzo olimpico (Tokyo 1964 e Roma 1960), due ori e un argento europei e tre ori ai Giochi del Mediterraneo. Senza dimenticare i 42 titoli di campione assoluto italiano nelle specialità dei 10, 20 e 50 chilometri e il primato mondiale nei 50 km conquistato nel 1961 a Roma.

La marcia dell’ottantunenne Pamich prosegue ancora fra allenamenti e gare amatoriali, perché “non bisogna essere sportivi solo per una stagione, ma per tutta la vita”.

Abdon Pamich racconterà la sua storia nel corso dell’incontro “Lo sport… ben oltre lo svago” che si svolgerà sabato 25 ottobre, all’Università Europea di Roma.

Insieme a altri 13 campioni olimpici Pamich proverà a far conoscere il segreto per diventare campioni nello sport e soprattutto nella vita.

ZENIT lo ha intervistato.

Come è nata la sua passione per lo sport?

A Fiume non c’era una famiglia in cui non ci fosse uno sportivo. Si praticavano tantissimi sport: il canottaggio, il nuoto, il pugilato (dove abbiamo avuto campioni olimpici), l’atletica e non parliamo del calcio che ha prodotto grandi giocatori come Ezio Loik del Grande Torino o Rodolfo Volk, il “Sigrfrido” o “Sciabolone” della Roma degli anni Trenta. Si respirava davvero un’aria sportiva. Nella mia famiglia mio zio si occupava di pugilato: faceva l’arbitro e l’organizzatore di incontri. Da bambino quindi sognavo di fare il pugile. A 13 anni mio zio mi fece entrare in palestra, ma poi arrivarono Tito e il comunismo e mio zio fu messo in galera senza un motivo preciso. Quando lo tirarono fuori gli chiesero di prendersi sulle spalle la riorganizzazione di tutto lo sport nella provincia del Quarnero. Lui sdegnosamente rifiutò e preferì andarsene a Venezia.

Poi cosa accadde?

Nel 1947 siamo scappati anche io e mio fratello maggiore. Se ci avessero preso, ci avrebbero sparato. Siamo partiti di nostra iniziativa, in maglietta e calzoncini corti, credendo di trovare lo stesso clima che c’era a Fiume. Il giorno stesso ci eravamo fatti il bagno al mare. Era il 24 settembre, il primo giorno di scuola. Invece la notte, a San Benedetto del Carso, un freddo bestiale. Siamo arrivati fino a Milano da nostro padre, che aveva già lasciato Fiume in precedenza, ma non potevamo restare e siamo andati a Udine. Da lì ci hanno smistato in un campo profughi a Novara. Eravamo considerati come dei selvaggi o fascisti perché fuggiti dal “paradiso titino”, ma per fortuna non c’è mai stata nessuna “rappresaglia”. Dopo un anno abbiamo potuto raggiungere mio padre che aveva trovato lavoro a Genova. Poco dopo, con l’arrivo di mia madre, la famiglia si è finalmente riunita.

Quando ha cominciato a marciare?

A Genova ho ricominciato a fare sport, soprattutto nuoto e bicicletta. Non agonisticamente, ma sentivo questa spinta dentro e poi il caso ha voluto che, a 18 anni, incontrassi la marcia. Mio fratello, al primo anno di medicina all’università, conobbe una matricola come lui, che praticava il lancio del giavellotto. Ci propose di andare nella sua palestra a fare un po’ di atletica. Visto che non c’erano marciatori, un vecchio allenatore ex marciatore, Giuseppe Malaspina, mi propose di fare la marcia. Non avevo nemmeno mai assistito a una gara. Alla prima competizione un altro esordiente mi diede due minuti di distacco, ma il mio allenatore mi disse di non preoccuparmi perché tanto quello lì non lo avremmo più visto.

Quanto è stato importante per lei il suo primo allenatore?

Fondamentale. Era stato campione italiano di marcia e avrebbe dovuto partecipare alle Olimpiadi di Tokyo del 1940 che furono annullate per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Era uno psicologo ante litteram, non ci ha mai messo pressione. Eravamo tre nazionali in una società piccola e anche quando le gare andavano male ci diceva di non preoccuparci e che la volta successiva sarebbe andata meglio. Quello che si legge oggi nei libri di psicologia dello sport lui lo applicava già allora, pur avendo solo la terza media. Era una persona molto sensibile e intelligente, un educatore. Con lui mi confidavo più che con mio padre e curava tutti noi allo stesso modo. Ci raccontava la storia della marcia, ci entusiasmava. E poi che passione. Aveva moglie e due figli, ma ogni anno ci seguiva negli allenamenti e nelle gare, rinunciando ai sabati ed alle domeniche, senza mai prendere un solo centesimo. Mi insegnò il vero senso dello sport e a lui debbo la formazione fisica e mentale che mi ha permesso di ottenere risultati così prestigiosi.

Come si svolgevano i suoi allenamenti?

All’inizio mi allenavo solo due volte a settimana. In Italia non c’era molta letteratura e gli allenatori erano un po’ degli autodidatti. Anche la medicina sportiva non era molto sviluppata: i medici nemmeno ci dicevano di bere durante gli allenamenti e io mi sciacquavo la bocca tutto il giorno anche a lavoro prima di andare a marciare. Noi cercavamo sempre di aggiornarci. Comprai dei libri in Cecoslovacchia per ispirarmi alla loro tradizione. I primi anni arrivavo sempre quarto poi sempre secondo dietro a Giuseppe Dordoni che mi batteva in volata. A un certo punto mi sono stufato di accontentarmi e non aspettavo più la volata. C’è stata una svolta andando a gareggiare in Inghilterra dove anche i meno dotati partivano subito a tutta velocità e allora mi sono detto che se lo facevano gli inglesi potevo farlo anche io. Da allora ho cambiato la mia tattica di gara e ho cominciato a vincere. Ho iniziato ad allenarmi più di due volte a settimana prima delle Olimpiadi del 1956 quando ci radunarono a Schio. Allenandomi tutti i giorni vinsi, da sconosciuto, una gara internazionale di 50km a Praga, battendo il record di quella competizione che apparteneva a un olimpionico cecoslovacco. Non mi sarei mai aspettato di vincere, mi sono buttato nella mischia alla leggera e quella è stata una grande soddisfazione.

La gara si svolgeva tra Praga e Podebrady. Per arrivare alla gara feci un viaggio disastroso. La notte dormii appena tre ore. Sulla linea di partenza c’erano tutti i migliori, olimpionici, primatisti del mondo, campioni europei. ‘Se arrivo tra i primi quindici – pensai tra me e me – sarebbe già un bel risultato’. Invece arrivai primo, sostenuto negli ultimi cinque chilometri dall’entusiasmo della gente.

Come ha fatto a coniugare il lavoro con l’atletica?

Ho sempre lavorato anche negli anni in cui ho partecipato alle Olimpiadi. Mi allenavo prima o dopo il lavoro. Ho dovuto prendere le ferie alla Esso per partecipare alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964. Sono stato per tanti anni l’unico rappresentante della Esso nell’atletica. Poi nel 1977 sono andato alla Fincantieri e dopo che Prodi, quando era presidente dell’Iri, la sciolse, fui mandato alla Sip dove rimasi fino alla pensione.

Quando ha cominciato a capire di poter diventare un campione?

In 25 anni ho vinto 500 gare, ma ho sempre cercato di migliorare me stesso più che pensare alle vittorie. È sempre stata più una sfida con me stesso: non ero condizionato dagli avversari. Non ho mai iniziato una gara pensando di aver già vinto. Mi impegnavo a dare il massimo, se vincevo bene altrimenti significava che qualcuno era stato più forte. Alla base di tutto c’era
il desiderio di migliorarsi sempre.

Quanto rimpiange il mancato oro alle Olimpiadi di Roma?

Le Olimpiadi di Roma erano quelle più facili da vincere, ma le ho preparate con mesi di allenamento collegiale a ritmo troppo adagio. Fu un errore degli allenatori. Non ero mai arrivato a pesare 79 chili, sei oltre il mio peso forma. Sono arrivato terzo, ma se fossi stato al massimo della condizione avrei vinto. Non è che all’inizio fossi convinto di vincere, ma volevo poter dare il cento per cento. Oltretutto ho avuto un guaio intestinale durante la preparazione, ma volevo che i tecnici mi lasciassero partecipare all’ultima gara, a Brescia, prima delle Olimpiadi. Se l’avessi fatta avrei raggiunto il massimo della condizione perché non gareggiavo da molto tempo e mi sentivo sperduto. Non sapevo quale fosse il mio livello in quel momento. Durante la gara olimpica, a un certo punto, avevo quasi cinque minuti di distacco. Al Foro Italico ero a un minuto e dodici dai primi, ma poi è calato il buio ed è subentrata la stanchezza. Non li vedevo più e non sono riuscito a riprenderli. In pochi chilometri ho guadagnato più di tre minuti ma non è bastato. Nella prima gara a cui ho partecipato dopo le Olimpiadi, il Giro di Roma, ero al massimo della forma e infatti è stata tutta un’altra musica.

Invece a Tokyo quattro anni dopo…

A Tokyo è andata bene, anche se poteva andar male. Sono arrivato in Giappone completamente scombussolato. Forse sarà stato per le vaccinazioni, ma non riuscivo a reggermi in piedi. Per quindici giorni mi allenavo quasi passeggiando nei boschi a un’andatura molto blanda finché ho ripreso le forze. Vedevo che tutti si allenavano come matti, ma io ho avuto la forza di fare poco e poi, quando mi sono sentito in forze, una settimana prima della gara, ho provato metà percorso olimpico in allenamento e mi sono sentito proprio bene. Lì mi sono tranquillizzato.

Come si fa a diventare un campione?

Si può avere tutte le doti possibili, ma se non si hanno testa e mentalità non si fa strada anche se si è fenomeni. Le motivazioni sono fondamentali. Adesso se penso a quello che facevo mi chiedo come ci riuscissi. Allora invece era un divertimento. La marcia poi è un dialogo interiore con se stessi, soprattutto negli allenamenti di cinque o sei ore con un’andatura non da acqua alla gola e c’era tanta meditazione. Di certo l’obiettivo principale non deve essere il denaro: lo sport non deve basarsi sul guadagno altrimenti si smette presto. Per esempio un atleta come Totti si sarebbe già ritirato se avesse pensato solo ai soldi. E poi, ogni gara è come la vita. Si parte come bambini e si arriva come anziani.

Se un giovane oggi le chiedesse di allenarlo cosa gli direbbe?

Ho allenato parecchi ragazzi e alcuni li ho portati in nazionale. Alla marcia ci si avvicina di propria iniziativa, la si prova e se piace si continua. Dipende molto da chi li segue. I miei atleti li incoraggiavo, li motivavo, davo loro soddisfazione. Ci vogliono molta determinazione e desiderio di migliorarsi sempre. Non bisogna esaltarli né porre subito degli obiettivi. Ognuno deve fare quello che può, cercare di migliorarsi senza l’obbligo di diventare fanoso. Deve essere un divertimento, un gioco con se stessi. Ci sono stati marciatori che hanno vinto subito a venti anni, hanno voluto subito farne dei fenomeni e poi si sono persi. Oggi molti giovani che fanno sport vengono disgustati dalla pressione dei genitori e da allenatori che vogliono subito risultati per farsi belli. Non si fa lo sport solo per vincere altrimenti chi non vince mai cosa fa? C’è stato un marciatore, Carlo Bomba, che ha gareggiato fino a 80 anni e ha vinto solo una Roma-Castelgandolfo. Era un uomo di assoluta correttezza e onestà. Durante una gara volevo farlo vincere ma si rifiutò di passarmi davanti. Quello si che era un vero atleta.

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Alessandro de Vecchi

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