Hannah Arendt, filosofa ebrea tedesca sfuggita alle persecuzioni naziste emigrando in America, viene inviata a seguire in Israele il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Il provocatorio saggio che nasce da questa esperienza scatena un dibattito sulle categorie stesse di male e responsabilità personale.

Possibile affrontare in una pellicola cinematografica questioni ponderose come quello della “banalità del male” o dell’acquiescenza di alcuni leader ebraici nei confronti dei persecutori nazisti?  È il tentativo, ambizioso, quello intrapreso da Margarethe von Trotta nel suo ultimo film, realizzato nel 2012, e uscito nelle sale in Italia solo due giorni in occasione della giornata della memoria.

Barbara Sukowa veste i panni della filosofa ebrea tedesca emigrata in America per sfuggire alle persecuzioni; apolide per 18 anni prima di essere naturalizzata insieme al secondo e amatissimo marito, il poeta Heinrich Blücher, all’inizio degli anni ’60, Hannah ha un posto di riguardo in università, i suoi corsi sono richiesti sull’onda del “successo” del suo lavoro su Le origine del totalitarismo. Ha stretto amicizie tra gli intellettuali e i letterati americani, tra cui in particolare l’inquieta scrittrice Mary McCarthy; insomma, le sofferenze del passato potrebbero essere un capitolo chiuso (anche se mai forse davvero elaborato, come nel film suggeriscono vari personaggi), e la vita potrebbe svolgersi con serena prevedibilità tra le mura di casa e quelle dell’università, dove la Arendt domina senza difficoltà i dibattiti con studenti e colleghi grazie alla sua intelligenza e a un pizzico di arroganza.

Nel 1961, però, alcuni agenti del Mossad catturano in Argentina Adolf Eichmann, gerarca nazista responsabile della deportazione e della morte di milioni di ebrei, contumace a Norimberga, e lo trasferiscono clandestinamente in Israele dove verrà celebrato il “processo del secolo”. Al direttore del New Yorker viene l’idea di mandare Hannah sul posto per scrivere del processo. Da quegli articoli – non una normale “corrispondenza”, quanto una riflessione a puntate sul tema del male e della responsabilità individuale – nascerà l’opera più nota della Arendt,La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, un ripensamento sconvolgente della categorie del male assoluto/radicale in rapporto alla facoltà del pensiero e al giudizio morale. Un’opera che suscita immediatamente indignazione tra chi la vuole vedere come una parziale assoluzione di Eichmann, chi vi legge l’allusione a possibili complicità di alcuni leader ebraici nella deportazione degli ebrei dai ghetti e chi accusa la Arendt di mancanza di sensibilità nei confronti delle vittime, ignorando il fatto che lei stessa era sfuggita a quelle persecuzioni.  La Von Trotta ricostruisce i fatti e i dibattiti con precisione – anche se forse a volte con un eccesso di didascalicità – fa rivivere l’ambiente intellettuale newyorkese di quegli anni attraverso una ricostruzione d’ambiente semplice ma efficace e quando poi mette in scena il processo alterna con abilità il repertorio alla ricostruzione, sottolineandole ciò che veramente le preme.

La Arendt, infatti, è colpita dalla figura del burocrate Eichmann, dalla sua assoluta “normalità”, ma nella sua meschinità coglie anche uno snodo fondamentale, che affonda le radici nelle riflessioni maturate alla scuola dell’amato/odiato Heidegger (il maestro da cui fu “tradita” quando questi aderì al nazismo, ma che lei invece dopo la guerra difese). Il pensiero che distingue la persona in quanto tale, ma che è anche connesso alla vita e alla passione, quella (com)passione che per i detrattori la fredda pensatrice non è in grado di provare, quel pensiero è ciò a cui Eichmann, e tanti altri con lui, ha abdicato, mettendosi nella condizione non solo di non poter e voler pronunciare un giudizio morale, ma, paradossalmente, privandosi di quello statuto di persona che i nazisti tentavano di togliere alle loro vittime nei campi di sterminio. Gli uomini come Eichmann commettono il male (un male che se forse non è radicale – come può esserlo la banalità, che è priva di radici e di memoria? – è, però, sicuramente estremo) in quanto si rendono volutamente incapaci di pensare.

Seguire il percorso di Hannah non è semplice, e benché la Von Trotta cerchi sempre di tradurre in dialoghi il flusso del pensiero della filosofa (anche nei flashback dedicati alla sua relazione, anche sentimentale, con Heidegger), la questione di fondo, lo scandalo che la protagonista non può e non vuole evitare, è quello che riguarda il cuore dell’uomo, di ogni uomo e non, come dicono i suoi detrattori, in senso astratto e per questo privo di affezione. Al contrario, si tratta di un discorso concreto fino all’eccesso, in cui i pochi, ma fondamentali elementi della biografia della Arendt (l’esilio dalla Germania, l’amore per il marito, l’amicizia con la McCarthy, la confidenza con un’aiutante) rafforzano la parabola sempre più esigente di una donna che non ha paura di mettere di fronte al mondo l’esito ultimo della sua riflessione. Anche se questo significa rischiare le amicizie e i rapporti più cari. Il richiamo di Hannah, che la Von Trotta rioffre aggiungendo il meno possibile alle lettere dei suoi scritti (ma regalandoci, nell’intensa interpretazione della Sukowa, anche la carnalità di un essere umano reale), hanno l’urgenza e la modernità di chi sa leggere il passato, ma soprattutto andare a fondo del presente, per rivendicare insieme la grandezza e la miseria dell’uomo.

La recensione è tratta da: Armando Fumagalli, Raffaele Chiarulli (a cura di), Scegliere un film 2014, Ares, Milano 2014, pp. 183-185.

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Titolo Originale: Hannah Arendt
Paese: Germania, Lussemburgo, Francia
Anno: 2012
Regia: Margarethe von Trotta
Sceneggiatura: Pam Katz e Margarethe von Trotta
Durata: 113
Interpreti: Barbara Sukowa, Janet McTeer, Axel Milberg

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