"Spesso la poesia si rifugia in uomini senza le carte in regola"

Inquietudini esistenziali e l’angoscia per un Dio mai incontrato animano i versi di Umberto Bellintani (1914-1999)

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«Cominciai ad essere poeta forse troppo presto, mi pare fra gli otto o nove anni. Fu allora che sentii poeticamente che avevo le braccia e avevo tutto il resto; mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e lʼavevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare ad erbe e fiori, e posai lʼorecchio sul cuore degli alberi. E modellavo animali e animali con la terra gialla che mi dava la riva di un fosso, o la terra nera che mi davano i pressi di una chiavica».

È con queste sue stesse parole che Umberto Bellintani, poeta mantovano tra i grandi del Novecento, nato a Gorgo di San Benedetto Po nel 1914 e lì morto nel 1999, racconta la nascita della sua vocazione poetica, che fu per lui come un rinascere, aprendo gli occhi ad una realtà alla quale, semplicemente e per tutta la vita, si sarebbe dedicato a dar voce: ricordi d’infanzia, volti compaesani, piante, animali e piccoli oggetti indissolubilmente legati alla sua campagna sono i protagonisti di una vita trasfigurata e mai staccata dalla realtà, che trae linfa dalla compattezza e dai colori di quella terra impregnata dalle acque del Po.   

Le poesie che pubblichiamo sono tutte tratte dalla raccolta, E tu che m’ascolti, dell’anno 1963, ultima pubblicazione prima della lunghissima assenza dalla scena letteraria durata trentacinque anni, durante la quale il poeta visse ritirato nel proprio paese d’origine lavorando come segretario in una scuola, pur senza mai interrompere la scrittura: a questo proposito Montale scrisse di lui in una recensione sul Corriere della Sera: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”.

FU QUELLA LA MIA GENTE

E un giorno in una torbida

luce accanto ad uomini intenti

a guardare nelle bocche dei cavalli

ho vagheggiato parole,

come schiocchi di fruste

urtantisi in un’aria

di terra d’ombra sonora,

e d’albero che si spacca

o si torce colpito

da saetta.

Ghignavano i cavalli.

Ed ho pensato a qual mai

dio s’affidavano

quelle figure di torba.

Mi dissi di quale razza mi sentivo.

E il cuore mi batteva forte forte.

Fu quella la mia gente,

di buon sangue plebeo,

staffilata per secoli,

serva della gleba,

e abbarbicata alla mia vita

come la mano di Rodin

al masso.

***

Le figure terragne di Bellintani non rimangono rarefatte nella nebbia, ma appaiono scolpite da una mano esperta: non è un caso che la parola del poeta sembra prendere vita e quasi staccarsi dalla pagina muovendosi prepotentemente con tutto il proprio volume corporeo. Le parole dei versi precedenti sono come “schiocchi di fruste” simili ad uno scalpello che fende l’aria e colpisce la pietra, “albero che si spacca o si torce colpito”.

La formazione artistica di Umberto Bellintani, diplomatosi in scultura nel 1937 all’Istituto d’arte di Monza con il maestro Marino Marini, segna a caratteri di fuoco tutta la sua produzione letteraria: nel 1940, con la chiamata alle armi in Albania e in Grecia, dovette abbandonare la carriera artistica; dal 1943 al 1945, inoltre, il poeta sarà prigioniero nei campi di lavoro di Górlitz e Dachau in Germania, Torn e Peterdorf in Polonia, ma la scultura rimarrà per sempre un sogno indelebile nella sua memoria, tanto che nel ʼ90 scriverà all’amico poeta Carlo Toni: «…soffro ancora della tristezza che mʼha dato un sogno di stamattina presto: ho sognato Monza, la scuola di Monza, la scultura, là dove io vissi davvero il Paradiso. Il risveglio fu doloroso, un immensa tristezza come è sempre quando penso ad allora. Pago sempre per aver vissuto quel Paradiso, pago troppo…». Questo desiderio appassionatamente inseguito, che si scontra con la consapevolezza di essere solo “una pavida tortora / che fa crucru e fugge”, costituisce una delle note dei seguenti versi:

LA TORTORA E L’URAGANO

Il mio piccolo germe di grandezza

vorrei urlasse come

questo fuoco nel cielo divampante.

Come le nubi.

Come il gigante platano che s’incendia nel tramonto

come la grandiosa morte della belva immane,

come la foresta.

Ma il mio piccolo germe di grandezza è tenuto in un serraglio

come un gorilla.

E temo che un giorno non riesca a spezzare queste sbarre

e muoia quale un povero

merlo senza un grido.

Amante come sono della bufera vorrei vedere il mondo

avvolgersi di fuoco,

e ogni uomo urlasse d’ebbrezza,

ogni uomo fosse un incendio nell’incendio,

e nel mattino una strepitosa mattina,

un rullo dei tamburi della guerra,

un uragano.

Questo vorrei.

Ma nel mio fondo non sono che una pavida tortora

che fa cru-crù e fugge

a un lieve battito di mani.

***

Nubi, alberi e tramonti, belve della selva, venti, uccelli e uomini raccolti in un unico afflato, prorompono a volte in un grido straziante per la faticosa ricerca di un Dio che il poeta spesso invoca e osanna ma contro il quale è capace anche dolorosamente di inveire: “Forse non esiste Dio. Forse / solo il rapporto / fra noi esiste e gli alberi / annosi o appena d’anni / uno e le erbe / e i coccodrilli e il buon tepore / della sera. Non v’è / che / poi la morte ed altro ancora / innanzi ad essa da soffrire. Anche nei seguenti versi dedicati alla memoria di don Primo Mazzolari, con il quale il poeta ebbe un intenso carteggio, la terra appare “coperta da una selva di crocefissi / dove ogni inchiodato sulla croce, ebete, sghignazza, bestemmia / e implora e sputa”.

ALLA MEMORIA DI DON PRIMO MAZZOLARI II

In questo nostro mondo

dove ogni essere grida pietà,

su questa terra

letteralmente coperta da una selva di crocefissi,

dove ogni inchiodato sulla croce, ebete, sghignazza, bestemmia

e implora e sputa

sul corpo del compagno il suo dolore

fattosi ira e veleno,

quando mai una mano pietosa vorrà

avvicinarsi a schiodare

uomini e la specie

d’innumeri animali? Quando mai

incolumi farfalle

voleranno dalle mani degli uomini

e fatti lievi come il fiato delle mammole erreremo

lungo torrenti di luce in un divino

fraterno amore? Quando mai

saremo miti e rugiadosi come gli angeli

che sognammo?

***

Le incalzanti domande dei versi precedenti sembrano trovare uno sbocco, nel seguente componimento, in una coraggiosa e non rassegnata decisione: quella dell’ascolto e della contemplazione del presente (una notte stellata), senza sterili evasioni, poiché “ogni cosa che fu è perduta”; e “il domani non ha più senso”; “e il senso dell’esser vivi è in questo contemplare / la notte e della notte essere / barca nel suo mare e timoniere”.

NOTTE STELLATA

Ascolta. Il tenebroso uccello

è ridisceso nel profondo bosco;

e ora canta, dopo aver errata tanta

della silente stellata notte.

Ascolta. Ora odi come

un cupo muggito errar per la campagna;

e non hai parole, né senso alcuno di quella

che fu la clamorosa luce

esplosa col mattino.

Là nel passato stella

Più dell’allodola strepitosa

E noviluni e tempeste,

tu non ricordi,

ché ogni cosa che fu è perduta,

e il senso dell’esser vivi è in questo contemplare

la notte e della notte essere

barca nel suo mare e timoniere.

Così, mia vita, hai travolto il transitorio scorrere

degli aridi momenti. E il
domani

non ha più senso, né la morte

è qui un passar dall’essere al non essere, e neppure

grotta che sbocca sulla ridente vallata.

***

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Maria Gabriella Filippi

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