«È la resistenza dell’aria e non il vuoto che consente il volo».
Immanuel Kant non ha scritto trattati di pedagogia. Eppure le sue parole sono metafora che ancor più in coincidenza con l’inizio dell’Avvento – l’anno liturgico che porta a riscoprire gli insegnamenti di Gesù, vero pedagogo dell’uomo, – diventa principio basilare in un campo, l’educazione, che è sempre più un’arte semi sconosciuta. Basta salire su un mezzo pubblico per assistere alla sguaiataggine nei comportamenti, al disprezzo dei deboli, all’ignoranza delle regole, alla brutalità nei confronti della cosa pubblica. Un quadro secondo, in bruttura, solo alle scene in cui campeggia la sedicente buona educazione, trionfo dell’ipocrisia e della falsità: è il dire una cosa e pensarne un’altra; è il lodare anche l’indegnità, pur di assicurarsi un vantaggio; è il non denunciare l’immoralità per quieto vivere (che a volte nasconde la viltà).
Se questo accade è perché oggi c’è poca comunicazione intergenerazionale. Ed il mondo è abitato da una società di smemorati, che non si raccontano più le grandi cose, i grandi eventi, e restano protesi sull’effimero, sul giorno che alla fine si spegne, perdendo volto e identità. Si apra una finestra su una casa qualsiasi, sui genitori alle prese coi figli: c’è chi con pazienza intraprende la strada delle spiegazioni minuziose e chi più spiccio conta fino a tre; chi ordina perentoriamente e chi supplica; chi promette e minaccia punizioni; chi urla e chi dopo un’estenuante contrattazione passa alle maniere forti.
Farsi ascoltare dai figli non è mai stato facile per i genitori: un tempo, al genitore bastava un’occhiata, un’alzata di sopracciglio a incenerire un’intemperanza infantile, per il resto c’erano botte e punizioni. Oggi pochi hanno nostalgia di quell’educazione autorevole che doveva drizzare la schiena al giovane virgulto, sebbene al genitore contemporaneo, dialogante e disponibile, morbido e protettivo, la pazienza scappi in fretta così che spesso le maniere forti tornano in auge. Si corre allora il rischio di trascurare una verità fondamentale: i bambini vogliono diventare grandi, hanno realisticamente bisogno di imparare a vivere, di muoversi molto, di apprendere ciò che non conoscono.
Insomma, di imparare “a volare” sperimentando anche da piccoli la vita. Hanno bisogno di esperienze, non di adulti che si sostituiscano a loro vestendoli, imboccandoli e servendoli. Hanno bisogno di testimoni, di esempi e di buone consuetudini che permettano loro di essere tranquilli e di sapere cosa poter fare, quando e come. In altre parole, di papà e mamme che non siano né troppo autoritari e né troppo “fanciulli” che non eccedano nella confidenza o del voler plasmare i fanciulli a propria immagine e somiglianza, ma che accettino invece il compito gratificante, ma altrettanto arduo, del mestiere più importante del mondo: quello del genitore-educatore. Della figura capace di aiutare i figli ad imparare dalle proprie mancanze, a dar loro fiducia, ad accettarne gli errori senza per questo marchiarli di incapacità.
Essere genitori è difficile quanto necessario. È una sfida da accettare sapendo di poter contare sempre sulla presenza di Cristo e sulla sua Grazia: non raccoglierla vuol dire rinunciare al futuro.