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Appena eletto, Papa Francesco rivelò il suo sogno di “una Chiesa povera per i poveri”. Alcuni non hanno capito queste parole del Santo Padre, altri le hanno equivocate. Secondo Lei, invece, qual è il vero significato?
Papa Francesco non ha fatto altro che rilanciare, a proposito di povertà, il “sogno” che era stato del Concilio Vaticano II. Nella costituzione sulla Chiesa si legge: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via… Come Cristo è stato inviato dal Padre a dare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito, a cercare e salvare ciò che era perduto, così la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza e in loro intende servire a Cristo” (Lumen gentium 8). In questo testo sono poste in chiaro le due componenti essenziali dell’ideale della povertà evangelica che sono “essere per i poveri” ed “essere poveri”. L’Antico Testamento ci presenta un Dio “per i poveri”, che sta dalla loro parte e li difende; il Nuovo Testamento, un Dio che si fa, lui stesso, “povero” con noi e per noi (2 Cor 8,9). In altre parole, l’opzione preferenziale dei poveri deve essere accompagnata da una opzione altrettanto preferenziale per la povertà! Papa Francesco non si limita a ripetere queste affermazioni, ma le attua nella sua persona sotto gli occhi di tutti, ed è questo che convince alcuni e sconvolge altri.
Anche San Francesco d’Assisi indicò nella povertà evangelica una rivoluzione che avrebbe liberato la Chiesa e favorito la diffusione della fede. Cosa può dirci in proposito?
Verissimo! Bisogna però tener conto di una cosa che ho cercato di spiegare nelle meditazioni date l’Avvento scorso alla Casa Pontificia e pubblicate da ZENIT nel volumetto “Innamorato di Cristo. Il segreto di Francesco d’Assisi”. Egli fu riformatore per via di santità, non di critica. Cioè, non si propose di attuare nessuna rivoluzione, ma solo seguire alla lettera il Vangelo. La rivoluzione ci fu e segnò profondamente la storia; ma questo è proprio il modo di essere riformatore per via di santità e non di critica: esserlo, senza saperlo, farlo senza sbandierarlo. Non è quello che sta facendo papa Francesco?
E’ poco noto ma l’opera più grande del poverello di Assisi fu quella di recuperare la fede nell’Eucaristia, nel valore salvifico del Corpo e Sangue di Cristo. Tanto è che San Francesco viene considerato tutt’ora come uno dei più grandi Santi Eucaristici. Anche nei tempi che viviamo sembra esserci una crisi nel riconoscimento del Corpo e Sangue di Cristo nell’Ostia. In che modo il Poverello d’Assisi riportò la gente alla Comunione?
È vero: Francesco, nei suoi scritti, parla dell’Eucaristia più spesso ancora che della povertà. Viveva all’indomani del Concilio Lateranense IV (1215) che aveva auspicato un rinnovamento della pietà eucaristica e se ne fece promotore. Non si stancò di raccomandare ai suoi frati di circondare l’altare e il tabernacolo di ogni cura e delicatezza. Aveva per Gesú presente nell’Eucaristia lo stesso sentimento che verso il Bambino Gesú a Greccio: lo sentiva come una persona viva e presente, non come una dottrina o un dogma di fede. Era soprattutto stupito davanti all’umiltà di Cristo che nell’Eucaristia che si nasconde “sotto poca apparenza di pane” e in una lettera grida ai suoi frati: “Guardate, frati, l’umiltà di Dio”. L’amore per l’Eucaristia spiega anche il suo grande rispetto e amore per i sacerdoti che l’amministrano, al punto di non voler predicare contro la volontà di essi e di non voler guardare al loro peccato.
E’ dal 1980 che lei opera in qualità di ‘Predicatore della Casa Pontificia’. Ha servito tre Papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, in tre periodi storici. Quali differenze o caratteristiche spirituali ha individuato in loro?
Mi fa una domanda difficile e delicata. Nell’esortazione che fui chiamato a tenere ai cardinali nel Conclave che seguì la morte di Giovanni Paolo II, quando si era sotto l’impressione della sua personalità che avrebbe messo in soggezione ogni possibile successore, ricordo che dissi che nessun Papa è chiamato per fare esattamente quello che faceva il precedente; che ognuno è scelto dalla Provvidenza a servire la Chiesa con il proprio carisma e così ognuno porta avanti un aspetto del ministero petrino che nessuno può assolvere, nella stessa misura, in tutta la sua vastità. È chiaro, per esempio, che in Benedetto XVI predominava l’aspetto del maestro, quindi del magistero, e in papa Francesco quello di pastore, anche se ognuno naturalmente si sforza di rispondere ad entrambi i compiti. San Giovanni Paolo II si è trovato a guidare la Chiesa nel periodo in cui avvenivano cambiamenti epocali nel mondo (si pensi al crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo) e si è rivelato una personalità gigantesca a misura degli eventi, capace di avere uno sguardo aperto su un numero impressionante di settori, da quelli più propriamente spirituali e pastorali a quelli sociali e di politica mondiale.
Alcuni lamentano una discontinuità tra Benedetto XVI e Francesco. Altri sostengono che invece esiste tra loro un grande legame, dato soprattutto dalla lettura del Concilio Vaticano II. Qual è il suo punto di vista in proposito?
Io vedo una totale continuità nelle cose essenziali: lo stesso amore per Cristo e per la Chiesa; lo stesso desiderio di servirla con tutte le proprie forze, secondo la propria coscienza; la stessa profonda umiltà di fronte a Dio e agli uomini. Vedo, come tutti, una diversità di stile e di carattere nel modo di esercitare il proprio ruolo, sia nei confronti della Curia che nei confronti del resto della Chiesa. Molte delle novità che papa Francesco sta attuando erano, pare, già nel cuore e nelle intenzioni di Benedetto. Solo che venendo da fuori dell’ambiente curiale, “dalla periferia del mondo”, come dice lui, e favorito dal suo stesso temperamento, Francesco non ha esitato a mettere mano a tanti cambiamenti auspicati da più parti, ma che sembravano irrealizzabili. Un detto, usato già da san Giovanni XXIII recita: “Nelle cose necessarie, unità; in quelle dubbie, libertà; in tutte la carità”. A me pare che questa saggia regola, trovi una esemplare attuazione nei nostri tre ultimi Sommi Pontefici.