"In vitro veritas": l'era della disincarnazione

Il filosofo Fabrice Hadjadj racconta la sua conversione al cristianesimo in un’era dominata dal nichilismo e dalla tecnica

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“Il nostro mondo è sempre più caratterizzato dalla disincarnazione. Siamo nell’era di in vitro veritas, sia che si tratti degli schermi che del vetro delle provette. Il padre è sostituito dall’esperto (e questo accade anche ai vescovi che rinunciano troppo sovente alla paternità in ragione di una sola posizione di superiorità gerarchica); la madre è progressivamente rimpiazzata dalla matrice elettronica. Vi diranno che ormai una coppia dello stesso sesso può avere figli allo stesso modo in cui li hanno un uomo e una donna. Anzi, vi diranno che possono averli molto meglio che un uomo con una donna, perché questi si consegnano alla procreazione attraverso l’oscurità rischiosa di un abbraccio e di una gravidanza, mentre una coppia dello stesso sesso è più responsabile, più etica, perché ricorre agli ingegneri per fabbricare un bimbo senza difetti, con un codice genetico verificato, molto più adatto al mondo che lo circonda. Ciò che bolle nei nostri laboratori è una vera contro-annunciazione: non si tratta più di accogliere il mistero della vita nell’oscurità di un grembo ma di ricostituirla nella trasparenza di una provetta”.

È la descrizione fatta dal filosofo Fabrice Hadjadj, nato da famiglia di religione ebraica, un passato da nichilista e anticlericale, attualmente sposato, padre di sei figli, insegnante di lettere e filosofia e anche drammaturgo. Dalla sua conversione ha preso il via la sua opera filosofica e letteraria. Hadjadj sostiene che all’interno della Chiesa sia avvenuta la massima comprensione e valorizzazione del corpo e della sessualità e pensa che la morte abbia la sua dignità. Tra i suoi numerosi libri vi sono Mistica della carne. La profondità dei sessi (Milano, Medusa, 2009), e Farcela con la morte. Anti-metodo per vivere, edito da Cittadella, che ha vinto il Gran Premio della letteratura cattolica nel 2006.

In occasione del terzo Congresso Mondiale dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, organizzato a Roma dal Pontificio Consiglio per i Laici, di cui il filosofo francese è membro, in risposta alla chiamata alla conversione missionaria che papa Francesco ha rivolto nell’Evangelium Gaudium, Hadjadj ha risposto per Zenit ad alcune domande.

Qual è la storia della sua conversione dall’ebraismo al cristianesimo?

Potrei raccontarvi una lunga storia… Dio ci converte con la sua intera creazione. La conversione è semplicemente una presa di coscienza, perché la realtà è sempre la realtà.

Quando si è convertiti, inoltre, non si è arrivati, il battesimo è un punto di partenza, potrei sempre diventare peggiore di quello che sono stato prima: continuo ad avere i miei peccati, quindi occorre sempre fare attenzione al discorso della conversione. In realtà non è vero che mi sono convertito dall’ebraismo al cristianesimo, perché non ero religioso per nulla: venivo da una famiglia ebrea sì, ma piuttosto di sinistra, marxista, a casa non avevamo nessuna Bibbia, ma solo opere di Marx, Hegel, Gramsci; io personalmente mi avvicinai molto presto a Nietzsche e ad autori atei ma, curiosamente, è attraverso degli autori anticristiani che ho scoperto il cristianesimo e, curiosamente, è proprio da cristiano che ho scoperto in maniera vera il mio essere ebreo.

Avevo la sensazione che la grandezza dell’uomo fosse legata alla sua vulnerabilità e che non si sviluppa con una sorta di potere orizzontale ma attraverso un grido verticale, un grido verso il cielo, come nella tragedia greca. Lì è evidente che la dignità tragica dell’uomo sta nel fatto che si rivolge ad un Dio e interpella il cielo.

Inoltre ero attirato intellettualmente al mistero della croce. Un giorno mio padre si ammalò gravemente. Stava per morire e mia madre mi chiamò. Ero impotente davanti a quella situazione ed io entrai in una chiesa, dove pregai la Madonna: era una Madonna circondata da tanti ex-voto, e proprio due settimane prima, entrando nella stessa chiesa con un mio amico, avevo preso in giro questi ex voto: ‘grazie di qua, grazie di là… ridicolo!’. Mi ero fatto beffe davanti a quell’immagine. Ma la sera in cui mio padre stava male andai da questa Madonnina, e in quel momento non accadde nulla di straordinario, le cose straordinarie sono sempre le più semplici: ebbi la sensazione di essere al mio posto e scoprii che la posizione dell’uomo che prega è la posizione dell’uomo per eccellenza; a partire da quel momento ebbi la certezza della verità della preghiera.

Perché l’adesione al cristianesimo è qualcosa di diverso dall’adesione ad un partito o a un’idea politica?

Siamo passati da un’epoca di estremismi ideologici a un periodo in cui tutte le ideologie sono morte, un periodo di uniformazione tecnologica: è il momento in cui si prende la diversità del reale, la molteplicità delle cose, anche la biodiversità e la si manipola, la si frantuma.

La missione della Chiesa non ha nulla a che vedere con un processo di uniformazione, perché è la stessa missione del Creatore: è il Creatore e il Redentore di tutte le cose, quindi non vuole schiacciare la singolarità delle cose con l’uniformità, ricondurle a un idea, ma permettere di essere pienamente quelle che sono, per come sono create e salvate, nella loro differenza.

Il fondamento della fede cristiana è che l’unità è un’unità di comunione, ma la comunione non è una fusione. La comunione è comunione dell’uno con l’altro, e l’altro rimane un altro, non viene assorbito né diminuito. Questo si manifesta allo stesso modo nel mistero della Trinità: c’è un solo Dio, una sola natura divina, ma allo stesso tempo ci sono tre persone, e queste persone, proprio perché sono tre, sono persone eternamente differenti. Noi pensiamo all’unità di Dio come un’unità che porta in sé la diversità eterna. Questo ci invita a considerare la missione della Chiesa non più come propaganda ideologica che riduce all’uniformità, ma come ospitalità che permette a ciascun essere di essere riconosciuto pienamente se stesso.

Sia Benedetto XVI che papa Francesco hanno detto che l’evangelizzazione non cresce per proselitismo ma per attrazione: cosa significa questa espressione e quali sono, secondo lei, i pericoli del proselitismo?

Possono sembrare solo due modi di dire lo stesso concetto: il proselitismo e l’attrazione, in opposizione a uscire da sé stessi. Attirare a se stessi o uscire da sé stessi?

Vanno fatti funzionare entrambi, perché il rapporto tra l’esterno e l’interno nella missione non è quella di dire ‘siamo una setta, noi abbiamo la verità e usciamo per portare dentro gente che è completamente fuori’: il mistero consiste proprio nel fatto che colui che è fuori dalla Chiesa, è allo stesso tempo creato per colui che è dentro la Chiesa, non vi è nulla di assolutamente fuori dalla Chiesa; le cose esistono, e non sono fuori dalla Chiesa, ma è la Chiesa che è creata dal Creatore. La missione per noi non è quella del proselitismo per cui bisogna incontrare qualcuno e ridurlo alle nostre stesse idee, ma è allo stesso tempo un uscire e un attrarre. Un’uscita perché andiamo verso l’altro, ma un’attrazione perché sentiamo, con il suo cuore una certa risonanza: questo è importante per i cristiani, credere alle parole di Gesù: ‘attirerò a me tutti gli uomini della terra’. È vero, tutti gli uomini sono attirati da Cristo, occorre fidarsi di questa parola qui! Io mi fido e sapete perché? Perché ero l’uomo più lontano da Cristo, ero quello la cui conversione era la più improbabile, ero aspramente anticlericale. Dobbiamo avere fiducia che il cuore del non cristiano, il cuore del nemico, il cuore del persecutore, è attirato da Cristo.

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Maria Gabriella Filippi

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