Ex oriente lux recita un antico adagio al quale può essere attribuita anche una chiave di lettura cristologica. La verità insita in questo detto è stata come riproposta alla Chiesa tutta cinquanta anni fa con la promulgazione del decreto Orientalium ecclesiarum (Oe) del concilio ecumenico Vaticano II sulle Chiese orientali cattoliche, il documento che ha affermato la coscienza della loro ricchezza e della necessaria diversità all’interno della Chiesa universale.
L’Oe è stato il coronamento di un importante cammino della coscienza latina, non sempre scevro da momenti di “buio”, per quanto l’Oriente cristiano non sia mai stato assente dall’Urbe: basti pensare allo studio delle lingue orientali, alla collezione di manoscritti orientali della Biblioteca apostolica vaticana, fino a giungere alla fondazione a Roma nel 1917 del Pontificio istituto orientale. L’istituzione, nello stesso anno, della Congregazione per le Chiese orientali come dicastero indipendente avvenne grazie a Benedetto XV per manifestare la premura e l’amore verso i cristiani «testimoni viventi delle origini» (Oe 2).
Il decreto portò a compimento quanto avviato in particolare dalla lettera apostolica Orientalium dignitas di Leone XIII, che iniziò a sradicare taluni pregiudizi, in primo luogo quello di una «universale uniformità» desiderata in nome di una ecclesiologia che considerava la Chiesa latina e il suo “rito” come modello di riduzione universale, nella convinzione della prestantia ritus latini. Parimenti i diritti e i privilegi dei patriarchi si erano assottigliati o erano stati fatti cadere, anche qui nell’ottica di una certa interpretazione del ministero del romano Pontefice. Alla base vi era forse una considerazione del cristianesimo orientale cattolico come un pittoresco folklore, talvolta non compreso a fondo e confuso con la Chiesa ortodossa.
Il concilio Vaticano II si occupò di Chiese orientali, oltre che nel già citato Oe, nei numeri 14-17 del decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio (Ur), e nel numero 23 della Lumen gentium (Lg), dove troviamo una ineludibile chiave ermeneutica per tutta quanta la questione delle Chiese orientali: esse non sono causate da una qualche contingenza storica ma esistono per disegno provvidenziale. Ciò significa affermare che la diversità in seno alla Chiesa è qualcosa che riflette un progetto di Dio, addirittura è una epifania strumentale per la cattolicità stessa della Chiesa indivisa. Non solo, ma è degno di nota il fatto che l’organicità di questi coetūs è data dalla disciplina, usi liturgici e patrimonio spirituale e teologico specifici.
Dopo queste affermazioni, appare molto difficile continuare a pensare a queste Chiese come accidenti storici o vestigia puramente archeologiche. Si aggiunga poi che confinare il loro ruolo al solo «specifico ufficio di promuovere l’unità dei cristiani» (Oe 24), peraltro ancor più oggi urgente e inderogabile, significa operare una riduzione sulla visione che di esse offre il concilio, entro il quadro ecclesiologico complessivo.
Quale loro immagine appare dal documento? Il proemio inizia in un modo che non fu scevro di contestazioni: «La Chiesa cattolica ha in grande stima le istituzioni, i riti liturgici, le tradizioni ecclesiastiche e la disciplina della vita cristiana delle Chiese orientali in cui risplende la tradizione apostolica tramandata dai Padri, che costituisce parte del patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa universale». Ben lungi dall’identificare ancora l’espressione «Chiesa cattolica» come sovrapponibile tout court a quella latina — come qualche voce contraria sembrava far supporre (cfr. patriarca melkita Maximos iv) — riconosce lo “splendore” della tradizione apostolica, da esse custodito, ed esprime la grande stima per il loro modo di governarsi, le loro discipline canoniche relative ai loro sacerdoti (presbiterio uxorato incluso), la loro pietà, il loro modo di intendere e comprendere il mistero cristiano e la loro visione della Chiesa.
Parlando della comunione che vige tra i fedeli della Chiesa cattolica, il documento afferma che «tra loro vige una mirabile comunione, di modo che la varietà non solo non nuoce alla unità della Chiesa, ma anzi la manifesta» (Oe 2). La varietà è un indicatore della comunione e quasi la sua condizione di possibilità, non la sua negazione. È una varietà, dovuta allo Spirito, declinata secondo l’orizzonte culturale di ogni popolo che ha accolto il Vangelo.
Tutto ciò ha anche una portata ecumenica decisiva e si deve anche a testi come questi se è stato possibile dopo secoli di reciproci anatemi arrivare, per esempio, a un comune consenso cristologico tra le Chiese calcedonesi e le Chiese ortodosse orientali non calcedonesi, firmate da Paolo VI prima e da Giovanni Paolo II poi, con diversi patriarchi orientali.
Le sezioni successive di Oe esplicitano concretamente, in puntuali disposizioni giuridiche, quanto espresso nel compatto ma assai ricco proemio. Il numero 4 indica una disposizione a far sì che tutte le Chiese particolari siano non solo tutelate, ma che possano anche incrementarsi. Il numero 5 riporta la dichiarazione in cui è manifesto il definitivo passaggio avvenuto, a livello dei documenti, della coscienza ecclesiale cattolica: da una situazione precedente in cui in pratica «si concedeva» l’esistenza delle diversità, si passa adesso al riconoscimento del «diritto e dovere di reggersi secondo le proprie discipline particolari».
È attuale più che mai quanto viene ingiunto alle Chiese orientali, ossia, se ci è permessa una immagine nota, di preservare e non mischiare il vino della loro tradizione con l’acqua di elementi a essa estranei. Il dettame conciliare non è interessato a riportare indietro le lancette della storia, quanto a garantire la vita e lo sviluppo del corpo ecclesiale mediante la cura della salute delle proprie radici.
Talvolta disattesa, in alcuni casi, è l’indicazione che chiude il numero 6, ossia la richiesta agli istituti e congregazioni latine che operano in territori orientali o fra fedeli orientali, di un’attenzione concreta, con l’erezione di case o perfino di provincie di rito orientale.
Un’attenzione particolare viene data alla figura del patriarca (numeri 7-11), che è padre e capo di queste Chiese: e ne vengono restaurati tutti i diritti e i privilegi. Quelli dell’antica e veneranda prassi di governo sinodale vengono così riconosciuti e non più semplicemente “concessi”; essi, lungi dall’indebolire o mettere in discussione la suprema potestà del romano Pontefice (il cui inalienabile diritto è ovviamente fatto salvo), sono un’ulteriore manifestazione della sinfonica varietas della cattolicità.
I successivi numeri 12-18 (sulla disciplina sacramentale) e i numeri 19-23 (sul culto divino) non sono un trattato teologico sulla liturgia orientale, ma disposizioni concrete che, discendendo da tutto quanto ha preceduto, sono da leggersi nella medesima luce ermeneutica. Non solo il concilio «conferma e loda» l’antica disciplina delle Chiese orientali ma, si casus ferat, desidera fortemente (exoptat) che venga ristabilita.
Gli ultimi paragrafi (numeri 24-29) sono dedicati alla questione ecumenica, segno che le Chiese cattoliche orientali non cessano il loro compito «in prima linea» per il dialogo ecumenico, pur mutandone la prospettiva generale.
La conclusione (numero 30) indica nella preghiera assidua di tutta la Chiesa la strada maestra, insieme alla speranza e alla carità, perché il Signore possa concederci un giorno di poter comunicare allo stesso calice. La ricomposizione della tunica di Cristo rimane nel desiderio ardente delle Chiese cattoliche, sia d’Oriente sia d’Occidente.
Le Chiese cattoliche orientali, però, si trovano oggi ad affrontare ancora delle notev
oli sfide. Ricordare e rileggere questo documento porta a rinnovare la speranza e rinvigorire la tenacia necessarie per affrontarle. Le guerre, insieme agli sconvolgimenti politici e umanitari che affliggono molte terre orientali, hanno prodotto flussi migratori consistenti, muovendo molti fedeli verso i Paesi di tradizione latina, dove il rischio di un processo di latinizzazione, pur senza alcuna volontà positiva, può senz’altro aumentare.
Una prima sfida pare essere da un lato una più profonda appropriazione da parte delle Chiese più numerose del cambiamento avvenuto con le indicazioni conciliari; dall’altro, aiutare quelle orientali in diaspora a preservare, amare e trasporre l’esperienza fondante delle loro tradizioni religiose nei nuovi contesti culturali. Una seconda è rappresentata dal comprendere e accettare che per il dialogo ecumenico le Chiese orientali cattoliche non sono un problema ma una grande opportunità. La martoriata storia di minoranza e di persecuzione di molte di esse è, infine, una testimonianza di coraggio e di speranza per le Chiese che, vissute fino a ora in climi politici favorevoli o al massimo indifferenti, potrebbero dover iniziare a prepararsi a un avvenire diverso.
La presenza di questi «testimoni viventi delle origini», fedeli a Cristo, alla Sede di Roma e alle proprie radici, è un continuo richiamo a non aver paura e a confidare tutto e sempre solo nel Signore Gesù Cristo, che mai ha fatto mancare, né farà mai mancare, la sua grazia, restando insieme a tutta la sua Chiesa fino alla fine.
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Fonte: L’Osservatore Romano, venerdì 21 novembre 2014