I doni ricevuti e condivisi

Lectio Divina per la 33ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 33ª Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) – 16 novembre 2014.

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Rito Romano

XXXIII Domenica Tempo Ordinario – Anno A – 16 novembre 2014

Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1 Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

Rito Ambrosiano

1° Domenica di Avvento

Is 24, 16b-23; Sal 79; 1Cor 15,22-28; Mc 13,1-27

1) Il primo talento è l’Amore di Dio.

I “talenti”1 di cui parla Gesù nel Vangelo non sono tanto le doti o le capacità (intelligenza o altro) che Dio ha dato a ciascuno, quanto il Suo Amore e i doni di grazia, forza e intelligenza, di cui ci ricolma perché assumiamo la responsabilità di figli e di fratelli.

A questo riguardo Papa Francesco ci chiede: “Avete pensato a come potete mettere i vostri talenti a servizio degli altri?”, e poi ci dice: “Non sotterrate i talenti! Scommettete su ideali grandi, quegli ideali che allargano il cuore, quegli ideali di servizio che renderanno fecondi i vostri talenti. La vita non ci è data perché la conserviamo gelosamente per noi stessi, ma ci è data perché la doniamo”.

In effetti, il Papa ci ricorda che, con questa parabola dei talenti2, Gesù vuole insegnare ai discepoli (e quindi anche a noi) ad usare bene i doni che Dio fa a ogni uomo chiamandolo alla vita, consegnandogli dei talenti, e quindi, affidandogli una missione da compiere mediante i doni da far fruttare e condividere. Inoltre è unaparabola, questa, con la quale il Cristo invita a non avere paura del la vita e a non aver pau ra di Dio. Lui non è un padrone eccessivamente e ingiustamente esigente, ma un Padre, che con la Sua Carità ci offre dei doni per farci vivere nella libertà e nell’amore.

Oltre al Suo amore questi sono i doni-talenti che Gesù ci offre: la Sua Parola, depositata nel Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il ‘Padre nostro’ – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi.

Questi talenti che Gesù ha affidato a noi, suoi amici e fratelli, si moltiplicano donandoli. È un tesoro donato per essere, investito e condiviso con tutti. Quindi, come è da stupidi pensare che i doni di Cristo siano dovuti, così è insensato rinunciare ad impiegarli, perché sarebbe un venir meno allo scopo della nostra esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibid.).

2) Un parabola incorniciata da altre due.

Nel Vangelo secondo Matteo la parabola dei talenti è preceduta da quella delle vergini sagge e seguita dalla parabola del giudizio finale sull’amore (Ho avuto fame, sete, ero nudo … e mi avete dato da mangiare, da bere a da vestirmi …), e possiamo considerala come il pilastro centrale che illumina entrambe. In primo luogo, essa proietta luce sul significato della sapienza, rappresentata dall’olio di riserva. La vera sapienza scaturisce dalla novità di un rapporto libero e creativo, che la persona umana realizza con il suo Signore. In secondo luogo, la parabola dei talenti insegna che la grazia, donata da Dio e accolta e riconosciuta dall’uomo, diventa dono per i fratelli, che si identificano con la persona stessa del Cristo. Inoltre, se si tiene presente il vangelo di Luca, questa parabola è strettamente collegata con l’episodio di Zaccheo, incontrato gratuitamente da Gesù. In questo modo la parabola mette in evidenza un fatto singolare: davanti a Dio l’uomo non solo è sempre debitore, ma è chiamato alla libertà dell’incontro con Lui, che è pura grazia. L’essere saggio e sapiente di fronte a Dio sarà allora per l’uomo l’unica possibilità di una liberazione, che diventerà dono e gratuità nell’incontro con il fratello.

Purtroppo, anche noi – a volte – stiamo di fronte a Dio come l’ultimo servo, quello che non ha fatto fruttificare il suo talento, restando chiusi nei nostri preconcetti su Dio, sulle nostre modeste idee su di Lui. Teniamo troppo alla nostra tranquillità, alla nostra routine. Il nuovo ci fa paura. Cristo ci invita ad essere suoi discepoli fiduciosi, che non hanno paura di lui e che gli stanno accanto senza timore servile. Il discepolo di Gesù deve muoversi in un rapporto di amore, dal quale soltanto possono scaturire coraggio, generosità, libertà, persino il coraggio di correre i rischi necessari.

Guardando a Colui che “ha fatto nuove tutte le cose” siamo –purtroppo- più spaventati che illuminati. Ecco allora che la parabola dei talenti stimola alla libertà e alla gratuità, che scaturisce dal riconoscimento della pura gratuità di un incontro. Questo incontro è, sì, desiderato dall’uomo, come lo fu per Zaccheo, ma è realizzato dalla bontà e dall’amore di Dio che venne a casa sua e vi portò la salvezza. Ful’avvento di Cristo in casa di un peccatore pentito.

3) Venuta = Avvento.  

Tutti i cristiani latini fanno coincidere l’avvento con il periodo di 4, per il rito romano, oppure di 6 settimane per il rito ambrosiano, ma molti ignorano l’origine della parola “avvento” e alcune “curiosità” storiche che questo termine porta con sé e che vale la pena ricordare.

Cominciamo dalla parola “Avvento”, che deriva dal latino, e che letteralmente significa “arrivo”, “venuta”. La usavano i sovrani dell’epoca antica, soprattutto in Oriente, per indicare il rituale con il quale volevano che fosse celebrato il loro arrivo solenne (appunto, il loro “avvento”) in una città, e pretendevano di essere accolti come benefattori e divinità. Quella della Liturgia cristiana fu dunque una scelta coerente alla mentalità dei tempi antichi, quando volle usare questo termine per indicare la “venuta” di Gesù Cristo, vero donatore di salvezza e redenzione, in mezzo agli uomini, nella grande città di questo mondo.

Il vero “avvento” dunque, quello in senso proprio, di per sé coinciderebbe con la festa di Natale, che è il giorno in cui si festeggia la venuta di Qualcuno e non qualcosa. Poi la parola avvento si allargò a indicare il periodo di preparazione alla festa del 25 dicembre. Di conseguenza ci si pose questo problema: quanto deve durare la preparazione al Natale? La soluzione più antica, che il rito ambrosiano ha conservato fino a oggi, fu quella di “costruire” il periodo di preparazione al Natale su imitazione del periodo di preparazione alla Pasqua, cioè la Quaresima. E dunque, come la Quaresima è scandita su sei domeniche, così anche l’Avvento venne “costruito” su sei domeniche3.

Domeniche destinate a tener viva la vigilanza dell’attesa, perché Cristo non ci trovi indolenti e pigri e il demonio ci derubi di questo tesoro. Domeniche in cui ci è ricordato che aver fede significa far fruttare il talento, che è stata posto nelle nostre mani.

4) Chi ama vive nell’attesa vigile.

Per accoglier
e e custodire la presenza di Cristo in noi occorre la vigilanza del cuore, che il cristiano è chiamato ad esercitare sempre, nella vita di tutti i giorni, caratterizzata in particolare nel tempo di Avvento in cui ci prepariamo con gioia al mistero del Natale.

L’ambiente esterno propone i consueti messaggi di tipo commerciale, anche se –forse- in tono minore a causa della crisi economica. Il cristiano è invitato a vivere l’Avvento come tempo dell’attesa senza lasciarsi distrarre dalle luci dei negozi e dei supermercati, ma di guardare -con gli occhi del cuore- Cristo, vera Luce.

Infatti se perseveriamo “vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode” (Prefazio I domenica di Avvento), i nostri occhi saranno in grado di riconoscere in Lui la vera luce del mondo, che viene a rischiarare le nostre tenebre.

La Vergine Maria ci è maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio. Sull’esempio della nostra Madre Celeste le vergini consacrate testimoniano quotidianamente come vivere questa attesa mostrando che il talento più grande è l’Amore di Dio, il suo Regno e la sua giustizia.

La vergine è la persona in attesa, anche corporalmente, delle nozze escatologiche di Cristo con la Chiesa, donandosi completamente alla Chiesa nella speranza che Cristo si doni alla chiesa nella piena verità della vita eterna. La persona vergine anticipa nella sua carne il mondo nuovo della risurrezione e testimonia nella Chiesa la coscienza del mistero del matrimonio e lo difende da ogni riduzione e impoverimento. (cfr S. Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n 16)

Le vergini consacrate nel mondo sono, infine chiamate a testimoniare che il fatto di essere perseveranti e “vigilanti nella preghiera ed esultanti nella lode” (Prefazio I domenica di Avvento), permette ai nostri occhi di essere in grado di riconoscere in Cristo la vera luce del mondo, che viene a rischiarare le nostre tenebre.

Il compito delle vergini consacrate è quello un costruire la vita sulla roccia di un Signore amato, ascoltato e atteso (cfr Mt 7,24-25).

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NOTE

1 Il talento non era una moneta, ma una unità di conto. Non si poteva coniare una moneta di quasi 27 chilogrammi! Indicava, in ogni caso, un valore molto grande, come enorme è il tesoro lasciatoci da Gesù. In effetti, un talento, valeva 60 mine e 6000 dracme. La dracma era parificata al denaro (che era la moneta del tempo) e un lavoratore non qualificato prendeva circa un denaro al giorno. La Misna dice che il minimo per una famiglia era 200 denari al giorno. Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere 30 anni.

2 Nella celebre parabola dei talenti riportata dall’evangelista San Matteo (cfr 25,14-30), Gesù racconta di tre servi ai quali, al momento di partire per un lungo viaggio, il padrone affida i propri soldi. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i talenti ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre apprezza quanto hanno fatto i primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto di come avesse “gestito” il dono ricevuto.

3 E quest’anno il 16 novembre è esattamente la sesta domenica prima di Natale: per l’appunto l’inizio dell’avvento ambrosiano. In epoca più recente il rito romano abbreviò questo periodo a “sole” quattro domeniche: ed ecco spiegata la differenza di calendario e la dicitura “avvento romano” per il giorno 30 novembre.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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