“Il perdono è un tocco divino per me, e al tempo stesso dà il gusto del divino agli altri. Ogni volta che vedo problemi, litigi e guerre, sento il brivido di Gesù sulla croce. Ogni volta che sento quel brivido sento il dolore, e sento la necessità e l’urgenza di dire questa parola: perdono, perdono, perdono!”.

Così il sacerdote indiano Swami Sadanand, durante la conferenza alla Fondazione Santa Lucia, a Roma, svoltasi dopo la proiezione del film Il cuore dell’assassino. Pellicola, questa, che racconta la storia di suor Rani Maria Vattalil, per la quale la Chiesa ha avviato il processo di beatificazione. La suora missionaria francescana, originaria dello Stato indiano del Kerala, viene assassinata nel 1995 dal giovane fanatico indù Samundar Singh, nel Madhya Pradesh.

Facendo leva sulla sua ignoranza, i potenti locali avevano convinto il giovane contadino che la missionaria stesse istigando il popolo alla rivolta. Samundar allora, pronto a combattere e a morire per il proprio popolo, convinto che bisognasse fermare colei che “avrebbe fatto tornare gli inglesi”, il 25 febbraio del 1995 uccide la suora con 54 coltellate. Samundar viene quindi arrestato e condannato all’ergastolo.

Ma accade l’imponderabile. La famiglia di suor Rani perdona il giovane uomo e, una volta ottenuta per lui la grazia, lo accoglie come un figlio, un fratello. Il perdono, straordinaria e silente virtù, esplode in tutta la sua grandezza in questo film.

Il messaggio arriva con grande intensità agli occhi e al cuore dello spettatore: sono gli stessi uomini che hanno vissuto vent’anni fa questa storia, a raccontarla oggi nella pellicola. Samundar, nel viaggio che compie per andare a trovare la famiglia di suor Rani Maria nel Kerala, rivive e racconta allo spettatore le emozioni vissute, dall’odio al senso di colpa, dall’angoscia al rinnovamento. Il suo viaggio fisico prende quindi la forma del suo viaggio di conversione spirituale, segnato da un inatteso ed incondizionato perdono. Il tono di Samundar è pacato, timido; non si limita a raccontare, mima i gesti e gli stati d’animo che lo hanno invaso. Senza filtri, senza remore.

Ma il film parla anche attraverso suor Selmy Paul, sorella di suor Rani, e attraverso sua madre. Le due donne, legate dal dolore e dal pianto, raccontano di come sono arrivate a maturare l’accettazione per l’assassino della suora. In loro non c’è falsità, non c’è forzatura, solo serenità e pace ritrovata attraverso la forza del perdono. La madre in particolare, che inizialmente non aveva neanche condiviso la scelta religiosa della figlia, accoglie Samundar dicendogli: “Figlio mio, sono contenta di averti qui”.

La quarta voce narrante è quella di Swami Sadanand, il sacerdote che per primo è andato a trovare Samundar in prigione, diventando per lui “padre, fratello, maestro, guida”. Swami svolge la missione di portare la pace tra gli uomini, di riunirli nel nome di Dio. Per questo, quando Samundar gli chiede per quale motivo fosse andato a trovarlo, gli risponde: “Perché sei un fratello per me, non ti abbandonerò mai. Dio ti ha perdonato”.

Il cuore dell’assassino vuole raccontare, senza strumentalizzazioni né retorica, una storia che testimonia il perdono, un perdono vero, autentico. Chi ha assistito alla proiezione del film alla Fondazione Santa Lucia ha avuto il piacere di conoscere e ascoltare padre Swami Sadanand, suor Selmy Paul e la regista del film, Catherine McGilvray.

La vera e propria catechesi sul perdono di padre Swami, che ha commosso tutti gli spettatori, merita di essere riportata integralmente:

“Per me il perdono è un viaggio da una consapevolezza bassa a una consapevolezza più alta. Ogni volta che un cane abbaia gli altri cani abbaiano, loro reagiscono e basta, non hanno la capacità di riflettere, ma l’uomo può. Quando può riflettere può fare una scelta e dire: va bene, io perdono. Quando l’uomo perdona diventa realmente un essere umano. A un livello di consapevolezza più alto non solo possiamo perdonare, ma possiamo fare qualcosa per la persona che abbiamo perdonato. A quel punto diventiamo un ‘buon pastore’ per lui. A un livello di consapevolezza ancora più alto non solo perdoniamo e rendiamo un servizio agli altri, ma siamo in grado sacrificare la nostra stessa vita. A quel punto siamo veri discepoli di Gesù. Quindi il perdono è viaggio dal naturale al naturale e dal naturale al sovrannaturale”.