Il Vescovo di Roma e la Chiesa Universale

Nel numero de “La Civiltà Cattolica” di domani, il gesuita Mario Imperatori riflette sul rapporto tra Papa e Chiesa, alla luce delle sensibilità ecclesiologiche della chiesa cattolica e ortodossa

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Il rapporto esistente fra il Papa, Vescovo di Roma, e la Chiesa universale, alla luce delle diverse sensibilità ecclesiologiche della chiesa cattolica e di quella ortodossa: sarà questo il tema su cui si incentrerà l’ampia riflessione del gesuita Maria Imperatori nel numero de “La Civiltà Cattolica” di domani, sabato 15 novembre.

Mentre per la chiesa cattolica si può parlare di un modello improntato alla «centralizzazione romana», per quella ortodossa si può parlare di una «tentazione nazionalista». Questi due approcci hanno luci ed ombre che sono messi in evidenza dall’autore.

Per Imperatori “con «centralizzazione romana» intendiamo qui il modo con il quale il primato petrino è stato concretamente esercitato in Occidente a partire dalla fine della lotta delle investiture, culminate nel Dictatus Papae di Gregorio VII”.

Il religioso spiega che la «centralizzazione romana» ha permesso alla chiesa cattolica “la liberazione dall’abbraccio soffocante del potere politico in nome della libertas Ecclesiae. Il che, sotto il regime di cristianità, ha evitato alla Chiesa occidentale di soccombere al cesaropapismo, mentre durante la modernità essa ha potuto evitare di venir infeudata prima allo Stato moderno, e poi al nazionalismo.

Però dall’altra parte, prosegue l’autore, la «centralizzazione romana» ha avuto un ruolo frenante “rispetto ai tentativi di riforma cattolica durante i secoli XV-XVI, e quello scatenante rispetto all’allontanamento del mondo tedesco dalla Chiesa, culminato nel dramma della riforma luterana”, inoltre “esso ha anche contribuito non poco a oscurare il ruolo istituzionale dei vescovi, indubbiamente centrale nel corso del primo millennio e di fondamentale importanza dal punto di vista teologico”.

A porre rimedio a questi limiti è intervenuto il Concilio Vaticano II che “ha svolto una cruciale funzione teologica riequilibratrice. E lo ha fatto cercando di integrare il primato definito dal Vaticano I all’interno di una più ampia teologia del ministero episcopale, che lo stesso Vaticano I non aveva potuto sviluppare, e tutta centrata sull’affermazione del carattere sacramentale dell’ordinazione episcopale e sull’esistenza del Collegio dei vescovi”.

Padre Imperatori passa poi a considerare l’approccio ortodosso spiegando che “con «tentazione nazionalista» intendiamo qui una diffusa modalità di esercizio del ministero episcopale presente negli ultimi due secoli del secondo millennio in non poche Chiese ortodosse. Possiamo definirla come un adattamento, nel particolare contesto dello sviluppo dell’idea dello Stato nazionale moderno, del tradizionale cesaropapismo orientale, tale per cui una Chiesa particolare tende a restringere il proprio orizzonte cattolico identificandolo sempre più con quello di una cultura e di una nazione particolari”.

Questa «tentazione nazionalista» è stata però bilanciata da una “gestione” collegiale della chiesa grazie al Santo Sinodo che riunisce i vescovi locali della chiesa ortodossa e “questo ha contribuito non poco a mantenere viva, al di là di tutti i pur reali condizionamenti politici, la consapevolezza di una communio Ecclesiarum tendenzialmente universale, attutendo in questo modo le fin troppo reali derive nazionaliste nel corso della modernità”.

Alla luce di tutto ciò, l’autore si domanda se ci sia “un legame tra Roma e l’universalità teologica, cioè specificamente ecclesiale, che il suo vescovo è incaricato di rappresentare e di custodire” e individua questo elemento nelle “figure teologiche di Pietro e di Paolo: il primo, in quanto «apostolo dei circoncisi» (Gal 2,8); il secondo, in quanto gli fu «affidato il Vangelo per i non circoncisi» (Gal 2,7)” .

Secondo padre Imperatori, la peculiarità della chiesa romana sta nella sua universalità realizzata dalla comunione di ebrei e gentili “ed è ugualmente significativo il fatto che né Pietro né Paolo abbiano fondato questa comunità: ciò conferma che la loro importanza non è affatto legata alla fondazione storica della comunità romana, ma a quella teologica, rappresentata dalla missione che unisce indissolubilmente questi apostoli tra loro”.

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Nicola Rosetti

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