Finalista alle Olimpiadi di Sidney nel 2000 con la squadra di nuoto sincronizzato, la campionessa Alessia Lucchini, impegnata in attività di allenamento e preparazione a competizioni sportive con soggetti affetti da autismo e sindrome di down, è stata intervistata da ZENIT.
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Prima di diventare campionessa di nuoto sincronizzato quale è stata la tua storia con il nuoto?
Facevo il classico corso di nuoto, quello che fanno tutti i bambini dai cinque-sei anni, poi nella piscina dove nuotavo iniziò un corso di nuoto sincronizzato: mi prelevarono due allenatrici e iniziai tutto così, per gioco. Una volta che impari i quattro stili, il nuoto può diventare un po’ noioso, invece io mi sono buttata in questa avventura ed è arrivato tutto di seguito, senza troppi pensieri. Mi sono appassionata, mi sono innamorata di questo sport e ho cominciato ad allenarmi tanto.
La tua storia sportiva naturalmente ha avuto i suoi alti e i suoi bassi…
Le sconfitte sono importanti quanto le vittorie, perché dalle sconfitte si può imparare a rialzarsi, a ritrovare le forze dentro sé stessi, a lottare per risalire.
Per te lo sport non è legato semplicemente alle tue vittorie, ma anche al sostegno verso i meno fortunati, è così?
Mi sono avvicinata al mondo della disabilità e ho presentato un progetto di nuoto sincronizzato per i ragazzi con la sindrome di down. C’erano solo due ragazzi in Italia che facevano questa attività, così a Roma abbiamo allargato questo sport ad altre atlete: oggi ho undici atlete che fanno questo sport. Ho pensato che potesse essere per loro un’attività sportiva di crescita di vita come era stato anche per me. Si parla in genere di ragazzi con la sindrome di down ma in realtà sono persone come noi, che hanno i loro momenti, che hanno le loro passioni, i loro obiettivi, le loro sconfitte e le loro vittorie… siamo esseri umani.
Cosa ti ha colpito di più di questi ragazzi?
Sicuramente sono spontanei, sono semplici, non hanno quello schermo di protezione e di razionalità che noi invece abbiamo e che a volte ci rende tutti impostati. Sono schietti, sono umani, sono diretti. Quindi, questa semplicità alla fine ti arricchisce, perché può scappare che oggi ti dicano. ‘sei l’allenatrice più bella del mondo’, oppure: ‘oggi stai zitta perché mi hai rotto le scatole’; ci sono questi alti e bassi, è bello, è divertente. Avvicinarmi a questo lavoro mi ha cambiato tutti i valori della vita: ho imparato con loro che ‘diversità’ è una parola che usiamo noi verso di loro, ma poi alla fine cos’è la normalità?
Come mai ti sei avvicinata a questo mondo?
Per caso. Una mia amica mi ha fatto conoscere un gruppo di persone autistiche e ho cominciato a lavorare e fare un po’ di sport con loro. Poi ho provato a crescere e diventare grande pensando: ‘faccio qualcosa di mio’. Quindi ho presentato questo progetto e da lì è partito tutto.
Il fatto di essere una sportiva ti ha dato una marcia in più nella vita e nelle difficoltà in genere?
Sì, sicuramente la cosa che ho notato immediatamente è l’organizzazione del tempo. Noi sportivi non abbiamo tanto tempo da perdere, siamo concreti e realistici. A scuola, ad esempio, ho imparato a studiare le stesse quantità di cose che studiavano i miei compagni di classe, ma nella metà o forse anche in un terzo del loro tempo. Questo mi ha insegnato ad essere disciplinata anche nella vita, ad avere delle regole, a organizzare la mia quotidianità. Ora che sono mamma di tre bambini e lavoro questo mi ha aiutato, altrimenti sarei sommersa! I miei bambini ora sono piccoli, non so se mai faranno uno sport a livello agonistico, ma so, come dicono anche i miei colleghi, che non è spingendo i propri figli che si ottiene: la voglia e la volontà deve partire da dentro, ti devi appassionare di qualcosa per vincere o per arrivare in alto.
Come si fa a diventare campioni veri, non solo di medaglie?
Penso che la cosa più importante che ho ricevuto geneticamente dalla mia mamma e dal mio papà sia la curiosità: la curiosità di scoprire realtà diverse, mondi nuovi, di unificarli insieme in base a quello che sei tu. Per questo non mi sono fermata soltanto allo sport pensando: ‘sono un’atleta olimpionica punto e basta, devo essere riconosciuta così nella vita, perché ho fatto le Olimpiadi’; quello è stato un pezzo della vita, poi la mia curiosità mi ha spinto a conoscere altri mondi, nel mio caso particolare quello della disabilità. Adesso mi sto buttando nel mondo della riabilitazione… Questo secondo me è il nocciolo di partenza per poter realizzarsi: non fissarsi su una strada unica, ma quantomeno curiosare da altre parti, e poi unificare tutto insieme.
Che impatto ha avuto su di te l’atteggiamento di papa Francesco verso i malati e i disabili?
Di umanità, che credo sia la cosa più importante: poi uno può avere o non avere fede o credere in qualcosa di indefinito, ma se hai degli esempi concreti che ti fanno vedere il rispetto dell’altro e l’aiuto allora ti riavvicini, guardi, osservi, impari. È come quando leggi i libri: puoi prenderli e farli tuoi e se poi non ti ritrovi nella vita rimangono comunque dei mattoncini dentro… la stessa cosa è la fede, la devi ritrovare continuamente.