Portare la comunione ai divorziati o i divorziati alla comunione? (I Parte)

Riflessioni a margine di un dibattito non nuovo riacceso il 20 febbraio scorso

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Recentemente si è assistito ad un dibattito molto intenso a proposito della possibilità di concedere la comunione eucaristica a coloro che, divorziati, convivano con altri allo stesso modo che fossero sposati (con l’aver o non aver contratto un matrimonio civile). L’origine di queste discussioni risale al 20 febbraio 2014, quando il cardinale tedesco Kasper ha presentato nel concistoro straordinario una lunga dissertazione sul tema, su richiesta dello stesso Santo Padre. In quel giorno il cardinale Kasper ha voluto “presentare solo alcuni quesiti”, che sono stati evidentemente causati da esigenze concrete. A seguito di ciò, diversi cardinali, vescovi e riviste teologiche[I], perseguendo lo stesso intento papale, hanno preso parte al dibattito. Il nostro proposito qui è di partecipare alla stessa discussione, seguendo le indicazioni del Santo Padre e secondo un metodo vicino a quello del cardinale Kasper: evidenziare cioè solo alcuni quesiti che dovrebbero essere considerati parte nella discussione di questo tema.

Ciò che subito deve essere notato è che, diversamente da quanto molti affermano, tale questione non risulterebbe affatto attuale. Infatti già negli anni ‘70 del secolo scorso ci fu un simile dibattito, anche molto vivace e intenso. Per porvi un punto fermo san Giovanni Paolo II fece qualcosa di unico nella storia: offrì 129 catechesi sulla sessualità, sull’amore umano e sulla famiglia negli anni che andarono dal 1979 al 1984, catechesi che andrebbero riscoperte e nuovamente proposte, data la loro importanza [II]. Nel 1981 poi, a seguito di un Sinodo sulla famiglia dell’anno precedente nel quale il tema venne ampiamente dibattuto, san Giovanni Paolo II pubblicò un’esortazione apostolica nota quale Familiaris Consortio. In quel documento, opera di quel santo e pastore, venne definito che la Chiesa non avrebbe potuto offrire la comunione a coloro che vivessero una seconda unione successiva ad un matrimonio valido, giacché “lo stato e la condizione di vita di queste persone contraddice oggettivamente quella stessa unione di amore fra Cristo e la Chiesa, che assume significato e attuazione per mezzo dell’Eucarestia”(FC, 84). Perciò lo sforzo pastorale della Chiesa deve essere quello di portare le persone, che vivono in una situazione oggettivamente contraria alla comunione di vita e di pensiero con la Chiesa, alla comunione totale con la Chiesa stessa.

Tutto ciò è possibile dal momento in cui si riesce a dimostrare in un processo canonico la nullità del primo matrimonio. Tale acquisizione lascerebbe libera la persona di poter contrarre un nuovo matrimonio canonico. Qualora ciò non fosse possibile, questa stessa persona potrebbe tornare a comunicarsi separandosi dalla persona con la quale convive, o almeno convivendo come fossero fratelli[III]. In tale caso la Chiesa deve aiutare i fedeli a portare la loro croce quotidiana, senza negarla o rifiutarla. Non è però possibile vivere in una situazione che distorca la santità e l’indissolubilità del matrimonio continuando a ricevere l’Eucarestia, sacramento che significa e realizza la comunione di vita e di amore del fedele con la Chiesa[IV].

La soluzione pertanto indicata fu e rimane veramente pastorale, fondandosi sull’insegnamento di Cristo[V], ed in nessun modo rappresenta un atto discriminatorio[VI]. Non basta perciò dare la comunione a un divorziato; è necessario piuttosto portare il divorziato alla comunione piena con la Chiesa, prima di offrirgli il corpo e il sangue di Gesù.

Oltre ad essere quindi un’antica questione, è una questione antiquata, proprio perché il problema principale della pastorale della Chiesa non è questo, ed esiste un bel numero di documenti del Magistero che avevano già chiarito e districato il nocciolo della questione.

La principale sfida attuale, allora, non è relazionata al dare la comunione ai “risposati”, quanto invece al fatto che ai giorni nostri il matrimonio diventa in-sé e per-sé sempre più raro. Attualmente i giovani non arrivano neppure ad una prima unione matrimoniale, e men che mai ad una seconda unione. Tale è stato semmai il problema di un’epoca in cui le persone ancora valorizzavano il Sacramento del Matrimonio, cosa che nella maggior parte del mondo attuale non accade più. Oggi sembra che chi può sposarsi non lo desidera; e chi invece desidera farlo, non può. A ciò basterebbe vedere un semplice telegiornale: si annuncia incessantemente e allegramente che famiglie “tradizionali” si rompono (divorzio) e allo stesso tempo emergono gruppi e progetti politici che cercano e riescono ad equiparare altri tipi di unioni a quella del matrimonio. Si constata nell’attualità quell’intrinseca contraddizione di voler affermare che il matrimonio è un che di così molesto e “superato” che sarebbe meglio distruggere mediante “libere unioni”, adulterio, divorzio; allo stesso tempo si considera il matrimonio qualcosa di buono, che dovrebbe essere un “diritto di tutti”[VII].

In un tale contesto, non sarebbe meglio se ci dedicassimo a formare i giovani per sposarsi in modo cosciente, sapendo che sono chiamati a vivere un’unione di vita e di amore totale e fecondo per tutta la vita, e che il matrimonio è un vero cammino di santità? Non si dovrebbe ricordare anche al mondo che il matrimonio unico e indissolubile tra un uomo e una donna nasce quale istituzione naturale, conosciuta razionalmente come la più adeguata al bene dei coniugi e dei figli?

***

NOTE

[I] Uno dei principali articoli pubblicati sul tema in riviste teologiche è rinvenibile nella rivista dei domenicani, Nova et Vetera. Cf. http://nvjournal.net/files/essays-front-page/recent-proposals-a-theological-assessment.pdf

[II] Disponibile in: http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/alpha/index_it.html

[III] I fedeli divorziati, nuovamente sposati, che per serie ragioni – quali, ad esempio, l’educazione della prole – non potendo «rinunciare alla separazione, assumano di vivere in piena continenza, cioè, astenendosi dagli atti propri dei coniugi» (FC 84), e che, con tale intento, abbiano ricevuto il sacramento della Penitenza, possono ricevere la Comunione eucaristica, dacché sia venuta meno la possibilità di causare scandalo.

[IV] «Se l’Eucarestia esprime l’irreversibilità dell’amore di Dio in Cristo per la sua Chiesa, si comprende per quale ragione la stessa implichi, relativamente al sacramento del matrimonio, quella indissolubilità cui l’amore vero non può che anelare». Cfr. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 29 e Catecismo da Igreja Católica, n. 1640.

[V] «Il Sinodo dei Vescovi ha confermato la pratica nella Chiesa, fondata nella Sacra Scrittura (Mc 10, 2-12), di non ammettere ai sacramenti i divorziati risposati, giacché il loro stato e condizione di vita contraddicono oggettivamente quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e realizzata nell’Eucarestia. Tuttavia i divorziati risposati, nonostante la loro situazione, continuano ad appartenere alla Chiesa, che ci accompagna con particolare sollecitudine nella speranza di poter loro coltivare, per quanto possibile, uno stie di vita cristiana, grazie alla partecipazione alla Santa Messa, senza ricevere la comunione, ascoltando la Parola di Dio, nell’adorazione eucaristica, nell’orazione e nella cooperazione alla vita comunitaria, nel dialogo sincero con un sacerdote o un maestro di vita spirituale, dedicandosi al servizio della carità, nelle opere di penitenza e nell’impegno dell’educazione della prole». Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 29.

[VI] Questi fedeli non son
o in alcun modo esclusi dalla Chiesa. Essa «si preoccupa di accompagnarli pastoralmente, invitandoli a partecipare alla vita ecclesiale nella misura in cui ciò possa essere compatibile con le disposizioni del diritto divino, sulle quali la Chiesa non possiede alcun potere di dispensa (FC 12). D’altro canto è necessario chiarire che i fedeli interessati non considerino la loro partecipazione alla vita della Chiesa ridotta esclusivamente alla questione del ricevere o meno l’Eucarestia. I fedeli devono essere aiutati ad approfondire la loro mutua comprensione, partecipando al valore del sacrificio di Cristo nella Messa, mediante la comunione spirituale (FC 13), nell’orazione e nella meditazione della parola di Dio, nelle opere di carità e di giustizia (FC 14).

[VII] Cf. J. Ballesteros, La familia en la postmodernidad, «Acta Philosophica», vol. 13 (2004), fasc. 1, pp. 11-21. Disponibile in: http://www.actaphilosophica.it/sites/default/files/pdf/ballesteros_2004_1.pdf

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Anderson Alves

Sacerdote della diocesi di Petrópolis – Brasile. Dottore in Filosofia presso alla Pontificia Università della Santa Croce a Roma.

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