Sono passati ormai 50 anni da quando Paolo VI, nello storico Incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, rilanciò la secolare alleanza tra Chiesa ed arte, ponendo le fondamenta per una rinnovata dottrina estetica della Chiesa. Per capire a fondo quale fu l’importanza del pontificato di Paolo VI per le arti, e in che modo i suoi successori abbiano proseguito il suo operato, abbiamo intervistato monsignor Timothy Verdon. Professore di Storia dell’arte presso la Stanford University, dirige a Firenze sia l’ufficio Diocesano dell’Arte Sacra e dei Beni Culturali Ecclesiastici, sia il Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Autore di numerosi scritti è attualmente uno dei maggiori esperti al mondo di arte sacra.
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Nell’Incontro con gli artisti del 7 maggio del 1964, in Sistina, Paolo VI rilanciò la secolare alleanza tra Chiesa ed artisti. Secondo lei, quale impatto ebbe questo messaggio sull’arte dell’epoca?
L’incontro nella Sistina ebbe, in quel momento, l’effetto di scuotere e sorprendere gli artisti, perché in quell’occasione Paolo VI, non solo fece appello a questo antico legame tra la Chiesa e gli artisti, ma chiese letteralmente scusa agli artisti per il fatto che da troppo tempo la Chiesa avesse messo loro una “cappa di piombo addosso”. I predecessori di Paolo VI avevano chiesto agli artisti di rimanere nell’ambito della tradizione rinascimentale-barocca, come se questa fosse l’unica possibile per la Chiesa cattolica. Paolo VI, invece, ammise di fronte agli artisti che questa impostazione non solo era erronea, ma costituiva anche un’ingiustizia nei loro confronti; perché gli artisti hanno bisogno della libertà di espressione per poter aiutare la Chiesa ad accordarsi, sul piano estetico, con ciò che lo Spirito ispira in ogni tempo agli uomini. L’incontro della Sistina aprì quindi un varco incredibile nel cuore degli artisti. Ciò perché Paolo VI, dopo averli rimproverati un po’ per aver abbandonato la Chiesa, confessò l’arretratezza dell’arte ufficiale della Chiesa stessa; per cui, quando lanciò l’appello di ricostituire l’antico legame tra Chiesa ed artisti, manifestò una convinzione che essi non si aspettavano. La Chiesa si confessava per ritornare ad un tipo di rapporto libero, praticamente paritario! Questo perché uno degli argomenti più importanti di Paolo VI era costituito dal principio che la vocazione artistica fosse paragonabile alla Sua vocazione sacerdotale. Lui, a nome della Chiesa, dichiarava di aver bisogno di loro, così come loro avevano bisogno della Chiesa per realizzarsi. Apriva così un varco veramente straordinario. Tutto ciò si tradusse nell’inizio di un’arte veramente nuova col messaggio pronunciato dallo stesso Paolo VI a chiusura del Concilio Vaticano II [l’8 dicembre del 1965]. In quell’occasione, si rivolse agli artisti del mondo intero, riprendendo i temi principali del discorso della Sistina e lanciando l’appello per una nuova collaborazione. Da quel momento in poi, vi fu una vera risposta entusiasta da parte degli artisti.
Paolo VI nella medesima circostanza, rivolgendosi agli artisti, disse: “Ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane alla ricerca sia pure legittima di esprimere altre cose”. Secondo lei perché molti artisti contemporanei si sono allontanati dalla Chiesa?
Lui lamentò che gli artisti avevano abbandonato la Chiesa, ma acquistò il diritto di lamentare questo abbandono, ammettendo che era dovuto al modo in cui la Chiesa si era comportata. Questo discorso è sul piano umano estremamente toccante, perché Paolo VI, a nome della Chiesa, non imputò a loro la colpa senza assumerne una buona parte. Si scusò con gli artisti ammettendo di fatto, che era stata la Chiesa stessa ad allontanarli. Eppure ricordò loro, che, avendo abbandonato la Chiesa, avevano abbandonato la rappresentazione dell’immagine biblica, che era stata da sempre fonte della loro ispirazione.
Da secoli, l’arte serve la Chiesa raccontando e rappresentando, attraverso le immagini, il mondo dello spirito e dell’invisibile con fine catechetico. Può un’arte non figurativa continuare questa missione?
Non nello stesso modo. Io in questo momento sto finendo di scrivere un volume su Beato Angelico, che uscirà con la collana di storia dell’arte del Sole 24 ore. Termino la vita dell’Angelico parlando di un’opera catechetica grandiosa: l’Armadio degli Argenti della chiesa dei Serviti a Firenze [Basilica della SS. Annunziata], commissionato da Piero de’ Medici. Su di esso, sono rappresentate 33 scene della vita di Cristo che costituiscono una catechesi al massimo livello. Certo, si può dire che un’arte non figurativa non può raggiungere un tale livello; però l’arte non figurativa arriva ad altre cose. Lo stesso Angelico, che può in questa conversazione rappresentare tutta la gloriosa tradizione dell’arte cristiana, in molte sue opere si sofferma sui marmi delle ambientazioni, quali, ad esempio, quelli inseriti nella pedana del trono di Maria o nelle pareti della stanza in cui la Vergine riceve la parola dell’Annunciazione. L’Angelico, in questo modo, ci sta dicendo che il vero senso degli eventi rappresentati attraverso le figure si trova al di là delle stesse. Dal canto suo, ogni credente sa che il senso degli eventi narrati dal Vangelo, non è limitato al racconto della vita di Cristo. Lo stesso Gesù parla di sé usando termini che non sono riconducibili alla figurazione: Lui è la luce, Lui è la vita, Lui è la via. Quindi il cristiano più semplice, in fondo sa, come certamente anche i teologi e gli artisti sanno, che la figurazione serve per evocare il racconto delle Scritture in cui troviamo il Signore, ma il Signore stesso va oltre. In altre parole, ciò che conta di più non è la figura, che è strumento, bensì la realtà a cui lo strumento si riferisce. Quindi io credo che la non figurazione possa fare molto, ma deve essere la Chiesa in prima persona a guidare gli artisti e a gestire questo strumento, in qualche modo un po’ incontrollabile, dell’astrazione simbolica.
Papa Giovanni Paolo II, nella “Lettera agli artisti” del 1999, disse che l’arte: “quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa”. In questi termini, secondo lei, che cosa si deve intendere per autenticità di un’opera d’arte?
Timothy Verdon: Mentre Paolo VI era un conoscitore ed un esteta, Giovanni Paolo II era un artista, non dell’arte visiva, ma dell’arte drammaturgica. La sua impostazione della lettera agli artisti è diversa rispetto a quella di Paolo VI. Giovanni Paolo II è un confratello che capisce bene la loro situazione, perché anche lui è creatore, e quindi si rivolge a loro dicendo “noi artisti comprendiamo Dio”. Penso che Giovanni Paolo II voglia andare oltre Paolo VI, che comunque chiedeva agli artisti di tornare a rappresentare il pensiero cristiano. Wojtyla disse che, anche quando ciò non avvenga, se l’artista sta veramente cercando la verità, vi è comunque “un’intima affinità con il mondo della fede”. La Lettera agli artisti, che sgorga direttamente dall’esperienza creativa del Santo Pontefice, parla anche di quel momento, esaltante e frustrante, in cui l’artista vede “in un pozzo di luce” qualcosa di assolutamente bello e cerca di “afferrarlo” riproducendolo. Ma qualunque sia la bellezza finale dell’opera, l’artista resterà sempre insoddisfatto, perché non sarà mai riuscito a tradurre tutto ciò che ha visto. Giovanni Paolo II dice quindi, in base a questa visione dell’atto creativo, che anche laddove gli artisti non stiano raffigurando la nostra fede e le nostre cose e lo stile possa sembrarci anche offensivo, se umanamente stanno davvero cercando di guardare in faccia quella verità che vedono interiormente, allora è possibile che possano trasmetterci un qualche
barlume di questa sincera ricerca della verità.
Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI hanno ribadito che la Chiesa ha bisogno dell’arte e che anche gli artisti hanno bisogno della Chiesa. Quest’affermazione può essere riferita anche agli artisti non credenti?
Io credo di sì. Infatti il senso del grande incontro che Benedetto XVI, aiutato dal cardinale Ravasi, ha organizzato alla Sistina nel 2009 era questo. Perché l’incontro non era esclusivamente rivolto agli artisti credenti che lavorano per la Chiesa, ma includeva anche molti grandi artisti che mai hanno lavorato per la Chiesa e la cui cultura è completamente diversa dalla nostra. L’idea era che se loro avessero accettato l’invito, avrebbero così riconosciuto il bisogno che ogni artista ha di rapportarsi a ciò che si offre, almeno potenzialmente, come un veicolo assoluto. È successo quindi che anche gli artisti non credenti abbiano ricevuto dal Papa un invito a venire alla Sistina, e che Benedetto XVI abbia loro parlato di fronte al Giudizio Universale di Michelangelo, al quale ha poi fatto più volte riferimento nel discorso. Gli artisti hanno capito che si trattava di un invito a lavorare su questo orizzonte ultimo, che solo una grande istituzione religiosa come la Chiesa può rappresentare. Quindi penso che se gli artisti cercano veramente questo assoluto riescono ad avvicinarsi alla Chiesa. D’altronde la voce della Chiesa dalla sua massima personificazione, il Papa, si è rivolta ad ogni artista dicendo: “Io ti capisco perché anche io, a modo mio, sto facendo una cosa simile”.