È difficile restare imparziali di fronte alla vicenda di Brittany Maynard, la 29enne americana che, colpita da un cancro al cervello in fase terminale, aveva annunciato di voler mettere fine alla sua vita.
C’è chi condivide la sua scelta e dice che avrebbe fatto lo stesso per lasciare questo mondo con consapevolezza e non in preda a convulsioni, paresi, cecità, perdita di memoria, cefalee, e chi, invece, leggendo sul web la sua storia, non riesce a non sputare fuori l’amaro che prova in bocca e scrive: “Forse avrei scelto di resistere, anche solo per un minuto in più al fianco di chi amavo. Fossero stati anche gli unici sessanta secondi di lucidità in un giorno”.
Al di là dei pareri discordanti rimane, tuttavia, un fatto: Brittany è morta. Lo aveva detto – attraverso un video postato sul suo sito thebrittanyfund.org, che su Youtube ha ricevuto oltre 9,5 milioni di visualizzazioni – e lo ha fatto.
Anzi, per un attimo ci aveva anche ripensato, quando, il 30 ottobre, in un altro video diceva: “Mi sento ancora abbastanza bene, provo ancora gioia, scherzo e sorrido con la mia famiglia e i miei amici e non mi sembra il momento giusto adesso”. Ma, come affermava poco dopo, si trattava solo di un rinvio perché “sento che sto peggiorando, di settimana in settimana”.
La donna, quindi, ha deciso sabato scorso di abbandonarsi a quella ‘dolce morte’ che non tutti gli Stati americani consentono. Lei si era trasferita, infatti, dalla baia di San Francisco all’Oregon dove la legge consente l’eutanasia.
La vicenda di Brittany è stata la miccia che ha riacceso quel dibattito mai sopito sull’eutanasia negli Stati Uniti. La sua storia ha commosso e diviso, e, laddove qualcuno ha versato lacrime per la scelta così drastica di una ragazza così giovane, in molti – specie le diverse associazioni che lottano per il diritto all’eutanasia – hanno approfittato della popolarità della vicenda per tirare acqua al proprio mulino.
Anche il Vaticano ha voluto dire la sua: a 24 ore dalla morte della ragazza, mons. Carrasco de Paula, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha commentato l’accaduto all’Ansa. “Il suicidio assistito è un’assurdità”, ha affermato il presule, perché “la dignità è un’altra cosa che mettere fine alla propria vita”. “Non giudichiamo le persone ma il gesto in sé è da condannare”, ha sottolineato, aggiungendo: “Quello che è successo nella coscienza noi non lo sappiamo. Noi scegliamo sempre cercando il bene, il guaio è quando sbagliamo”.
Per il presidente della Pontificia Accademia per la Vita quello di Brittany è stato un “errore” che questa donna ha fatto “pensando di morire dignitosamente”. Invece, ha rimarcato il vescovo, “suicidarsi non è una cosa buona: è una cosa cattiva perché è dire no alla propria vita e a tutto ciò che significa rispetto alla nostra missione nel mondo e verso le persone che si hanno vicino”.
Proprio queste ultime sono state l’ultimo pensiero della donna che, nel suo blog, ha consegnato ai “cari, intelligenti, meravigliosi amici”, necessari “come l’acqua” durante il periodo di prove e sofferenze, una sorta di ‘testamento’ spirituale: “Le persone più felici sono quelle che si fermano ad apprezzare e a ringraziare la vita – ha scritto -. Se cambiamo i nostri pensieri, cambiamo il nostro mondo! Amore e pace a tutti voi”.
“Arrivederci a tutti i miei cari amici e alla mia famiglia che amo”, ha poi aggiunto in un messaggio largamente diffuso sui social network, poche ore prima della sua morte, “oggi è il giorno che ho scelto per morire con dignità, tenuto conto della malattia in fase terminale, questo terribile cancro al cervello che mi ha imprigionato… ma mi avrebbe imprigionato tanto di più”.
Avrà pure ragione Brittany, o meglio le ‘sue’ ragioni. Ma forse la testimonianza di una sofferenza vissuta cristianamente avrebbe potuto ‘aiutare’ molte e molte più persone, non solo pochi intimi.