L'amore vince tutto, anche la morte

La sfida della fede è ardua ma gloriosa, scrive l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace nel suo editoriale pubblicato oggi, giorno della Commemorazione dei Fedeli Defunti, sulla “Gazzetta del Sud”

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«E’ l’amore, non la ragione, che è più forte della morte».

È novembre. Ed è già il giorno della commemorazione dei defunti. Ai tanti in fila nei viali dei cimiteri per la visita ai propri cari probabilmente non risuonano in testa le parole del grande scrittore tedesco Thomas Mann: di fronte alla morte, che magari s’aggira attorno ad una persona cara o a noi stessi, la prima, istintiva reazione è  fuggire o  sbarrarle la strada. Si implora Dio perché tenga lontani gli spettri del trapasso. Naturale, spontaneo, eppure paradossale: davanti all’imponderabile, si seguono vie diverse da quelle aperte dal raziocinio, che il mondo contemporaneo pare aver elevato a divinità. È la prova del fondamento di verità insito nelle parole di Mann, che schiera la speranza nella sfida alla morte, simbolo supremo di infelicità. Essa, infatti, non conosce la bellezza e le meraviglie dell’amore: non ha madre né figli e quindi, senza imbarazzo, elimina l’una e gli altri, ignorando che cosa significhi amare davvero.

Morire è uno spogliarsi di veli, di pesi, di fogliami che celano l’altra faccia della vita che sta oltre quella che noi vediamo nei suoi segni transitori e caduchi. È un po’ quello che, con immagini ellenizzanti, faceva balenare san Paolo: «Quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, simile a una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2 Corinzi 5,1).

In quest’ottica, la speranza cristiana non è, come pure a volte viene presentata, la consolatoria promessa di un mondo futuro in cambio dell’accettazione rassegnata e passiva di quello presente, segnato dal dolore e dalla violenza, ma piuttosto la testimonianza che arriva da un uomo, Cristo, che immolandosi ha scritto nel’eternità che la vita non può essere imprigionata per sempre dalle tenebre, perché c’é un’epifania, un nuovo inizio, che attende ognuno di noi sulla soglia estrema del passaggio dal mondo dei sensi a quello delle anime. La sua radice è nella fede, che si rivela come un confronto a tutto campo, che non teme di addentrarsi anche sui terreni più incerti e ignoti. Certo, come scriveva Georges Bernanos, essa «è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi». Ma in sé non ha nulla di insensato, men che meno di solitario. Il suo itinerario è motivato, i suoi risultati sono probanti, il suo tracciato tormentato è però nitido perché il cammino è protetto da una Presenza.

Insomma, la sfida della fede è ardua, ma  gloriosa. È un’esperienza i cui echi vanno lasciati risuonare nella propria intimità, senza sotterrarli sotto cumuli di chiacchiere o annebbiarli nel godimento cieco o nella distrazione alienante. È vera sapienza quella che si nutre non solo di fredda intelligenza, ma di una conoscenza piacevole, globale, pronta a inoltrarsi anche nelle regioni ostiche delle domande ultime sul dolore e sull’amore, sulla verità e sulla menzogna. Viverla vuol dire maturare per sé l’acuto pensiero di Leonardo da Vinci: «Quando io crederò e imparerò a vivere, imparerò anche morire».

+ Vincenzo Bertolone

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Vincenzo Bertolone

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