La celebrazione di oggi è un invito ad avere lo sguardo immerso in Gesù, per pregustare il Cielo, la vita vera oltre la morte. In Lui sono vivi i defunti che ci hanno preceduto. E’ un po’ come quando ti innamori e non smetteresti mai di guardare chi ti ha rapito il cuore. E il suo ricordo, le immagini dei momenti passati insieme non ti lasciano un istante; tieni la sua foto nel portafoglio, e la guardi e la riguardi, e un desiderio intenso di stare insieme, per sempre.
Ecco, così dev’essere il Cielo, e molto di più, e non ce lo possiamo immaginare se non attraverso quello che abbiamo sperimentato e stiamo vivendo. Perché la speranza sorge dalla memoria struggente di ciò che si è vissuto. Altrimenti sarebbe alienazione.
Molto più di un semplice ricordo, la memoria è un’intimità che supera tempo e spazio, è il «memoriale» che nella Scrittura giunge a diventare «il presente del passato» (S. Agostino). Quando Israele racconta e celebra gli eventi della sua storia, non resta spettatore sulla loro soglia. Li accoglie compiuti di nuovo nel suo presente, mentre è chiamato a farsi contemporaneo di chi li ha vissuti in presa diretta.
Come in un appuntamento d’amore, Israele ha incontrato Dio nella memoria del suo agire fedele e misericordioso, imparando ad affidarsi a Lui come un figlio a suo padre. Gesù, il Figlio prediletto, ha dato compimento a questa esperienza. «Disceso dal cielo» sulla terra, ha vissuto unito al Padre nella memoria della sua volontà, facendone il suo presente dove offrirsi in riscatto per l’umanità.
Durante l’ultima cena, Gesù ha consegnato alla sua Chiesa il suo Mistero Pasquale, proprio come un memoriale: «Fate questo in memoria di me». Nel cuore della nostra vita il Signore ha deposto la sua memoria, per «vederlo» vivo come lo hanno contemplato i discepoli la sera di Pasqua, riconoscendolo dalle stesse piaghe, i segni del suo amore.
Già, ma come? Dove? Nel perdono dei peccati, il miracolo più grande. Non esiste sulla terra, nessuna carne ne è capace; è un souvenir del Cielo, la “prova regina” della sua esistenza. Solo chi ha conosciuto il perdono di Dio ha «visto» il Signore. Infatti, si può credere solo in si conosce, perché la fede non è un salto nel buio.
E noi, abbiamo sperimentato che “la volontà del Padre” è la vita eterna? Siamo tra i “chiunque” che hanno “visto il Figlio e hanno creduto in Lui”? Perché se davvero fosse così oggi avremmo in noi “la vita eterna”, e la certezza che Gesù ci “risusciterà nell’ultimo giorno”. La vita sarebbe tutt’altra cosa, piena di “speranza” e pace, pur tra mille prove.
Oppure il nostro sguardo è come quello degli “stolti”, per il quale “i giusti sembrano morire”? Forse pensiamo che la sofferenza e la morte siano dei “castighi”, “sciagure” immeritate…
Se, infatti, non c’è un “primo” giorno in cui “vedere e credere”, e poi un “secondo”, un “terzo”, un “milionesimo” giorno in cui sei stato liberato dai peccati, non puoi credere che nell’”ultimo” Gesù ti “risusciterà”.
Non a caso il verbo usato da Giovanni e tradotto con “vedere”, nell’originale greco è “theoreo”, che definisce uno sguardo attento, che osserva. Esso è impiegato per chi vede i segni compiuti da Gesù.
E’ il “vedere” del catecumeno, che, con il pensiero e lo sguardo fisico, cominciava a percepire i segni e la presenza di Gesù nella propria vita: “è già uno sguardo di fede, anche se non una fede piena, bensì quella di un cuore che è potenzialmente aperto al Mistero” (I. De la Potterie).
Ma deve compiersi in una contemplazione di fede piena. Attraverso il catecumenato le persone giungevano a “vedere” Gesù nei segni che operava nella propria vita, e così a “credere” in Lui. Facevano esperienza che “tutto” di loro era salvo, perché ormai in Cristo; e che “nulla” sarebbe andato perduto.
Per questo potevano professare la propria fede ed entrare nelle acque della vita. Erano ormai pronti a “darla” quella vita “irriducibile” ricevuta gratuitamente, come il Signore. E non è un modo di dire: appena fuori dal battistero li attendeva il martirio…
Vedendo Cristo risorto vedevano diversamente anche la morte, come San Francesco, che la chiamò “sorella”, chiamando “beati quelli ke essa trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male.”.
Ma forse noi siamo ancora angosciati, stretti nella disperata nostalgia di chi non abbiamo più vicino. Abbiamo paura di averli “perduti” per sempre? Non importa, coraggio! Perché giunge oggi la Chiesa e ci invita a guardare a Cristo, che non ci “respinge” mai. E’ vero, Dio ti ama così come sei, non ti rigetta nel dolore e nella morte del tuo intimo, ma ti perdona, perché sei la sua creatura più bella. Sei suo figlio, e il Padre il Figlio non lo ha lasciato nella tomba!
Siamo “dati” a Gesù, “consegnati” dal Padre a Lui, come Lui si è “consegnato” al Padre e a ciascuno di noi. Dio ci ha “rivolti verso” Gesù, come recita l’originale greco, allo stesso modo che Gesù, dall’eternità, è “rivolto verso” il Padre. E’ la nostra elezione, il Dna spirituale inscritto nelle nostre cellule e nella nostra anima, da sempre. Un grido che ci preme dal cuore, come quando un gatto graffia sulla porta perché vuole uscire.
Come Eva, immagine della Chiesa, Sposa di Cristo tratta dal suo fianco squarciato, anche ciascuno di noi è condotto a Lui. E’ come un magnete, c’è un’attrazione irresistibile, che si può frustrare solo con il peccato contro lo Spirito Santo. Tra noi e Gesù accade come nel “ricongiungimento” di una coppia di immigrati: prima entra nel Cielo lo Sposo, vi si stabilisce, ne prende la cittadinanza e così “prepara un posto” per la sua Sposa; allora torna da lei e la chiama, perché si ricongiunga a Lui.
Come è successo la sera del giorno di Pasqua quando Gesù è apparso ai suoi discepoli chiusi nella paura della morte. Come accade ovunque la Chiesa annunci il kerygma, la Buona Notizia di Cristo risorto.
Quando lo Sposo ti chiama, le pratiche per ottenere il visto del Paradiso sono facilissime. La Sposa non deve perdere tempo e forze per iniziarle da zero. Basta dimostrare di essere sua moglie.
E come lo dimostra? Con il certificato di matrimonio, che è il battesimo, dove “siamo stati uniti a Lui con una morte simile alla sua”, per esserlo “anche nella sua risurrezione”. Per questo Gesù dice che chi è chiamato “verrà a me”, letteralmente “si avvicinerà rivolgendosi verso di me”. E’ il compimento della volontà nella quale Dio ci ha creato: l’accordo della nostra alla sua. Lui ci ha rivolto verso Gesù, ma occorre che ciascuno di noi lo accetti e si avvicini e si volga verso di Lui.
Tradotto nella nostra vita, questo significa concretamente: per “volgersi”, convertirsi e “andare” a Cristo, tu ed io faremo l’iniziazione cristiana, che è l’iniziazione alla vita eterna, il cammino che ci conduce ad unirsi a Lui.
Lui viene a noi attraverso la Chiesa che ci annuncia il suo amore, noi “andiamo a Lui” accogliendolo nel cammino di conversione. Non si tratta di sforzi e impegni, ma di obbedire a Dio che ci ha scelti per “darci” a suo Figlio.
E’ lasciare che l’onda magnetica del suo amore ci attragga, e seguirla. Lasciarci “seppellire con Cristo” attraverso i sacramenti che “crocifiggono l’uomo vecchio con Cristo” per risuscitarci e camminare in “una vita nuova”.
Per farlo abbiamo bisogno della Chiesa che ci insegna a “guardare” con attenzione e riconoscere nei segni l’opera del Signore risorto. Nella comunità impariamo a “vedere” la Parola ascoltata insieme ai fratelli compiersi nella nostra vita.
Perché “vedere Gesù” è ascoltarlo raccontarci la nostra vita alla luce del suo amore; e così innesca in noi il desiderio del Cielo, vincendo la paura della morte c
on cui il demonio ci tiene schiavi: se Dio è stato fedele durante tutta la vita, ci deluderà proprio alla fine?
Impossibile, perché l’esperienza ci dice che “la morte non ha più potere su Cristo”. Lo testimonia la nostra storia, nella quale “nulla è andato perduto”: il matrimonio, le relazioni difficili, noi stessi.
Per questo abbiamo la certezza che “nessuno andrà perduto”: l’amore per noi ha trapassato le sue mani inchiodandoci eternamente a Cristo. Quelle piaghe sono ora gloriose, e riempiono della stessa Gloria ogni frammento della nostra vita che, in Lui, è custodito per l’eternità.
Non andrà perduto tuo padre, né tua madre, tuo marito, tuo figlio, perché l’amore più forte della morte è la garanzia che ci sarà il ricongiungimento sperato. L’amore è la “casa” dove ci ritroveremo, trasfigurati, in Cristo.
Per questo oggi “commemoriamo” i nostri fratelli defunti: facciamo memoria “con loro” dello stesso amore che ci ha raggiunti e uniti nella grande famiglia di Dio. Non sono belle parole, non è una consolazione a buon mercato. Non è nulla di simile alle risposte che ogni religione dà alla morte.
E’ l’esperienza dell’amore che l’ha vinta, qui ed ora, nella Chiesa; è il “rinnovo” quotidiano del nostro passaporto per il Cielo, timbrato a fuoco nel “crogiuolo” delle sofferenze che ci “provano”, ci fanno “degni di Lui” e “graditi come un olocausto”.
Così hanno vissuto molti nostri cari che ci hanno preceduto, “purificati come oro” nella croce e nelle malattie, mentre la loro “speranza piena di immortalità” si fortificava. E se qualcuno avesse bisogno di purificazione, oggi preghiamo per lui, attingendo ai meriti della Vergine Maria, di San Giuseppe e dei santi. Aggrappandoci confidenti alla misericordia di Dio, celebriamo per loro il «memoriale della nostra salvezza», la Pasqua del Signore che attira ogni vita nel presente eterno del suo amore.