La precarietà non è solamente una condizione economica ma soprattutto sociale, antropologica, esistenziale. Il tema è stato affrontato dal segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), monsignor Nunzio Galantino, nel suo intervento durante il convegno Nella precarietà la speranza, in corso a Salerno e organizzato dalla CEI.
Nel corso del dibattito cui hanno partecipato, tra gli altri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, il direttore di Federmeccanica, Stefano Franchi, il segretario confederale Cisl, Luigi Sbarra, e il direttore Tv2000, Paolo Ruffini, monsignor Galantino ha parlato di “nomadi” come altra connotazione dei precari.
“Siamo nomadi quando non abbiamo più certezze in ambito religioso, politico e sociale – ha spiegato il presule -. Abbiamo perso molte di queste certezze non solo perché soggettivamente instabili o indecisi, ma perché si sono dissolte in larghi strati e non sono più riconosciute come valori stabili e universali”.
La condizione dell’uomo d’oggi è quindi immaginabile come una sorta di “Pantheon che ha tanti altari, ma tutti equidistanti dal centro. Ci manca un punto centrale di riferimento e questo è il simbolo della nostra condizione”.
Nella nostra società manca una “gerarchia dei riferimenti su cui orientare le nostre decisioni e la nostra vita”; la precarietà e la provvisorietà sono vissute “a vari livelli: nelle coppie, nella società, nel lavoro. Dobbiamo prendere coscienza e realisticamente imparare ad affrontare e orientare le nostre scelte contando su una ‘speranza ragionevole’”, ha sottolineato Galantino.
La speranza che si semina, infatti, è per lo più “parente dell’illusione”, ha osservato il segretario generale della CEI, esprimendo, ad esempio, i suoi dubbi sulla flexsecurity promossa dall’Unione Europea, una formula da cui “non dobbiamo lasciarci abbagliare”.
A differenza degli Stati Uniti, il sistema economico europeo si è dimostrato “incapace”, ha affermato Galantino, di “garantire a chi esce dal sistema di trovare nuove opportunità per rientrare”. Nel Vecchio Continente, pertanto, ed in particolare in Europa, “flessibilità è l’altro nome di precarietà, e entrambe sono anticamera della disoccupazione”.
Non ha senso, quindi, misurare la “buona occupazione” sulla base della “durata del lavoro”: ben più importante è che “il maggior numero abbia sempre un rapporto col lavoro”.
La “speranza cristiana”, ha proseguito il segretario generale della CEI, pone la persona come “fine della società”, poiché “ognuno ha una dignità sacra in quanto immagine divina”. Se però manca il lavoro “la persona non riesce a realizzarsi e abbiamo a che fare con lo ‘scarto’, che provochiamo noi con i nostri comportamenti”.