Pubblicata per l’anno giubilare del 1975, l’Esortazione parte della considerazione che “la società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale”.
Purtroppo, osservava il Beato, “in molte regioni, e talvolta in mezzo a noi, la somma di sofferenze fisiche e morali si fa pesante: tanti affamati, tante vittime di sterili combattimenti, tanti emarginati! Queste miserie non sono forse più profonde di quelle del passato; ma esse assumono una dimensione planetaria”.
Questa situazione non può tuttavia “impedirci di parlare della gioia, di sperare la gioia”, affermava il Papa. “Noi abbiamo profonda compassione della pena di coloro sui quali la miseria e le sofferenze di ogni genere gettano un velo di tristezza”.
“Noi – aggiungeva – pensiamo in particolare a quelli che si trovano senza risorse, senza soccorso, senza amicizia, che vedono annientate le loro speranze umane. Essi sono più che mai presenti alla nostra preghiera, al nostro affetto. Noi non vogliamo certo che nessuno si abbatta. Cerchiamo, al contrario, i rimedi capaci di portare la luce”.
Nella parte finale dell’Esortazione, il Papa auspicava che, “senza allontanarsi da una visione realistica, le comunità cristiane diventino luoghi di ottimismo, dove tutti i componenti s’impegnano risolutamente a discernere l’aspetto positivo delle persone e degli avvenimenti”.
D’altronde era questo lo spirito che animava Giovanni Battista Montini, caratterizzato sin da giovane per la sua bontà, sensibilità, intelligenza, caritatà. Egli eccelleva in ogni cosa che faceva, come dicevano molti a lui vicino.
E lo stesso Eugenio Pacelli da Segretario di Stato vaticano, nonostante fosse molto diverso da Montini, capì subito le doti del giovane bresciano, tanto che nel 1937 appoggiò fortemente la sua nomina a Sostituto della Segreteria di Stato. Carica che ricoprì fino al 1952.
Durante la Seconda Guerra mondiale, Pio XII lo mise poi a capo della struttura di assistenza che accoglieva gli ebrei, gli oppositori regime, i perseguitati. Era Montini che coordinava la rete di assistenza e salvataggio delle vittime della guerra.
Con il ruolo di Sostituto collaborò anche alla stesura del radiomessaggio di Papa Pacelli del 24 agosto 1939 per scongiurare lo scoppio della guerra. Si attribuiscono a lui le storiche parole: “Nulla è perduto con la pace! Tutto può esserlo con la guerra”.
Per comprendere ancora meglio la natura del Beato, basti ricordare che poco dopo esser stato eletto sul Soglio di Pietro, decise, nel 1964, di rinunciare all’uso della tiara papale, mettendola in vendita per aiutare con il ricavato i più bisognosi. Il cardinale Francis Joseph Spellman, arcivescovo di New York, la acquistò con una sottoscrizione che superò il milione di dollari, e da allora è conservata nella basilica dell’Immacolata Concezione di Washington.
Concluso il Concilio l’8 dicembre 1965, ‘ereditato’ da Giovanni XXIII, si aprì un periodo difficilissimo per la Chiesa cattolica. Soprattutto quando nel 1968 Paolo VI pubblicò l’Humanae Vitae, l’enciclica in cui il Pontefice spiegava perché la Chiesa fosse così determinata a difendere la famiglia naturale, soprattutto nella sua missione procreativa affermando la sua contrarietà ad ogni forma di contraccezione.
Le reazioni furono feroci: diversi episcopati si opposero in maniera dura, qualcuno paventava anche uno scisma. Paolo VI era attaccato da destra e sinistra. Celebri la sue frasi:”Aspettavamo la primavera, ed è venuta la tempesta”. O addirittura: “C’è fumo di satana dentro la Chiesa”
Pacato e paziente non cedette né alle minacce e riuscì a tenere la Chiesa unita. Patì tuttavia enormi sofferenze. Tanto che si dice che Papa Francesco sia indeciso se celebrare domani in bianco come si fa con i Beati o in rosso come si fa per i martiri.
Paolo VI ha lasciato al mondo parole di saggezza per il mondo intero. Ai laici ha detto: “L’atteggiamento fondamentale dei cattolici che vogliono convertire il mondo è quello di amarlo. Questo è il genio dell’apostolato: saper amare. Amremo il nostro tempo, la nostra civiltà, la nostra tecnica, la nostra arte, il nostro sport, il nostro mondo” (discorso di Paolo VI al Congresso mondiale dell’apostolato dei laici Roma 9 ottobre 1957)
Parlando alla Curia romana, il 21 settembre 1963, espresse l’auspicio che essa non diventasse “una burocrazia, pretenziosa e apatica, solo canonista e ritualista, una palestra di nascoste ambizioni e di sordi antagonismi”, ma fosse “una vera comunità di fede e di carità, di preghiera e di azione, di fratelli e di figli del Papa”.
Ai non credenti, ai lontani, disse: “Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Ognuno è un chiamato, un invitato…” (Omelia per la conclusione del Concilio Vaticano II 8 dicembre 1965).
Nella Populorum Progressio, l’Enciclica del 26 marzo 1967, si rivolse alle vittime della povertà, affermando: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello. (…) Lo sviluppo è il nuovo nome della Pace”.
Infine, al mondo lasciò in eredità queste parole che appaiono, più che mai oggi, profetiche e lungimiranti:”La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; La Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio… (Enciclica Ecclesiam suam, 6 agosto 1964).