L’aggettivo più adatto per descrivere i numeri che fotografano il tasso di natalità dell’Italia è impietosi. Nel 2013 si è toccato il minimo storico di nascite: appena 514mila, un numero che fa ancora più impressione se si considera che nel 1964 nacquero circa il doppio dei bambini. E l’ecatombe non sembra arrestarsi, visto che nel 2014 stiamo viaggiando persino sotto quella soglia, tanto che con ogni probabilità stabiliremo un nuovo record al ribasso. Con questi numeri non si scherza. Il livello minimo di fecondità per garantire oggi la riproduzione è di 2,1 figli per donna. Ebbene, l’Italia si assesta intorno alla misera cifra di 1,39. È realistico pensare che, se non si inverte la tendenza, il Belpaese è destinato all’estinzione. Le cause di questo declino affondano nella crisi della famiglia. Crisi della quale fa un’approfondita diagnosi Roberto Volpi, statistico e autore del libro La nostra società ha ancora bisogno della famiglia? (ed. Vita e Pensiero, 2014). La risposta è sì, vediamo con l’autore perché.
***
Dott. Volpi, nel 2013 in Italia si è toccato il minimo storico delle nascite. Un fattore da attribuire alla sola crisi economica?
La crisi economica è un’aggravante di una tendenza alla denatalità che è in atto in Italia da quattro decenni, cioè dalla metà degli anni settanta. La causa scatenante è di carattere culturale, ma senz’altro ci sono strumenti economici per poter intervenire nell’immediato.
Per esempio?
Ciò che funziona di più sono senz’altro gli aiuti diretti, monetizzati. Vanno bene i servizi per l’infanzia, ma a mio avviso ciò che serve davvero sono i finanziamenti dello Stato nonché le detrazioni fiscali per le coppie alla nascita del secondo figlio. Il nodo centrale è questo: sono le famiglie con almeno due figli a trovarsi sotto i livelli medi di povertà, ciò significa che la difficoltà economica scatta in genere alla nascita del secondo bambino. Non a caso lo standard prevalente delle famiglie è il figlio unico. Ma con il figlio unico si precipita; per questo occorre urgentemente incentivare le coppie a fare almeno due figli.
Intravede segnali positivi in questo senso?
Mi sembra di cogliere in questa fase storica qualche pur piccolo elemento di discontinuità con il passato. Nella manovra finanziaria il Governo Renzi introduce un aiuto alle famiglie numerose – una minoranza delle famiglie italiane – che è però almeno un segnale. Non che la politica italiana non avesse cose a cui pensare, ma ciò non giustifica affatto che nel passato la famiglia sia sempre stata relegata in fondo alle agende programmatiche dei governi.
Si fa un gran parlare in questi giorni di coppie di fatto e di unioni civili. Come interpreta questo alla luce della crisi del matrimonio e della famiglia?
È anzitutto un elemento di chiarezza che si parli di unioni civili esclusivamente per le coppie dello stesso sesso. Del resto, perché si dovrebbero riconoscere le coppie di fatto eterosessuali? In Italia ci si può sposare in brevissimo tempo e senza spendere soldi recandosi di fronte a un giudice o a un ufficiale civile. Trovo dunque inutile, persino ridicolo istituire un altro registro. Credo sia invece giusto garantire dei diritti alle coppie conviventi dello stesso sesso, l’importante è che ciò non venga confuso con il matrimonio.
È vero che oggi si preferisce la convivenza al matrimonio?
Non è affatto così. In Italia oggi su undici coppie, dieci sono sposate e una è di fatto. Se si considera che i matrimoni sono calati del 60% in 30/40 anni, ciò significa che le coppie di fatto hanno recuperato pochissimo. Il vero fenomeno che emerge è che non ci si mette più insieme: non si sancisce più un progetto di convivenza duraturo né davanti a un sacerdote, né davanti a un ufficiale di Stato civile, né davanti a sé stessi soltanto.
Il “momento di gloria” della famiglia italiana si registra dal dopoguerra fino agli anni settanta. A cosa fu dovuto?
Bisogna considerare tre caratteristiche di fondo. La prima è questa: nell’Italia di quei tempi si sposavano tutti, c’era una media di 7/8 matrimoni ogni mille abitanti contro i 3,4 di oggi. La seconda caratteristica è l’età media più bassa delle spose di allora, ossia 24 anni contro i 31 di oggi. C’è poi un terzo elemento, che è quello che più si tende a dimenticare, cioè che praticamente tutti (il 99%) si sposavano con rito religioso. Ciò testimonia che nell’Italia di allora ancora permaneva un modello di matrimonio e di famiglia, per altro ispirato all’insegnamento della Chiesa e dunque indissolubile e aperto alla nascita di figli. Pertanto, la somma di questi tre fattori fornisce un quadro di una società in salute poiché prolifica. Ma c’è anche un’altra cosa da dire.
Prego…
In quegli anni la famiglia era considerata un percorso in itinere, cioè non si metteva su famiglia sulla base di un’acquisita tranquillità economica e professionale, bensì si metteva su famiglia al fine di acquisire questa tranquillità. Le incertezze non sono un freno ma un incentivo a fare famiglia. Nel mio libro uso la seguente espressione: la famiglia era sentita “alle spalle”, come qualcosa che spinge a fare, non “sulle spalle”, come invece viene percepita oggi.
Torniamo alla causa culturale che determinò la crisi della famiglia negli anni settanta. Si riferisce all’introduzione del divorzio?
Ci tengo a fare una premessa: io al referendum votai a favore del divorzio e sono inoltre divorziato e risposato civilmente. Dunque ne parlo in modo oggettivo. Ebbene, va detto che fino al 1970, all’introduzione del divorzio, non cambia nulla. L’anno “zero” è il 1974, quando con il referendum abrogativo si modificano le coscienze degli italiani, si innesta nella società un dibattito che mette in discussione i modelli tradizionali. E i numeri danno concretezza alla nuova realtà: già nel 1975 si assiste all’inizio di un declino della famiglia italiana. A crollare sono prima di tutto i matrimoni, e a seguire le nascite. In cinque anni si perde un quarto dei matrimoni e quasi un terzo delle nascite, con un ritmo che va dal 5% al 7% in meno ogni anno.
Come si arrivò, in un Paese mediamente conservatore com’era l’Italia, ad accettare questo cambio radicale delle coscienze sul tema della famiglia?
Va detto che in Italia il divorzio viene introdotto più tardi rispetto agli altri Paesi europei, tuttavia una cultura predisposta ad accoglierlo era ormai già presente da tempo. Stava dunque maturando un’insofferenza diffusa nei confronti del matrimonio che non trovava uno sfogo giuridico ma che era pronta a manifestarsi non appena la legge avesse consentito il divorzio. Altra questione da considerare è l’inaspettata “emancipazione” della donna italiana in quegli anni. Il divorzio era percepito come uno strumento a disposizione dell’uomo, ossia del membro “forte” della famiglia. In realtà la sorpresa fu che due richieste di separazione su tre vennero effettuate dalle mogli. Dunque la donna approfitta dell’introduzione del divorzio per rovesciare il rapporto di forza con l’uomo. Non bisogna dimenticare però che i primi segnali di questo rovesciamento erano iniziati anni prima…
Da quando?
Dagli anni sessanta, dal “boom economico”, quando le donne iniziano a riequilibrare la loro posizione rispetto all’uomo poiché cominciano a lavorare, dunque a guadagnare e dunque a ritagliarsi una propria indipendenza economica. È in questi anni che si instaura un sistema di sviluppo che ha bisogno di singoli consumatori – donne o uomini che siano – e non più della famiglia. Questa esigenza economica si imprime anche nella cultura delle persone, nelle quali inizia a predominare il desiderio di esprimersi come individui al di fuori dell
a famiglia. Una sorta di ribellione che però finisce per sfociare in una crisi profonda della natalità che non ci vede raggiungere nemmeno il livello minimo di riproduzione.