In questo intervento cercherò di offrire una riflessione sulla personalità e l’azione pastorale di Jorge Mario Bergoglio–Papa Francesco e su come il suo stile comunicativo, il suo linguaggio incentrato sulla prossimità e lacultura dell’incontro stia incidendo profondamente nel modo in cui la Chiesa guarda a se stessa e guarda al di fuori di sé. Lo farò non in modo analitico-speculativo, non ho gli strumenti, ma in modo esperienziale. A dire il vero anche un po’ seguendo proprio quanto fa Papa Francesco che nei suoi discorsi, come nelle sue omelie, procede più per narrazioni esperienziali che per esposizione di idee e concetti, che pur ovviamente non mancano nel suo Magistero. La mia esperienza professionale è privilegiata: come giornalista della Radio Vaticana, infatti, dal 13 marzo del 2013 seguo quotidianamente l’attività di Papa Francesco. Impresa per la quale bisogna allenarsi bene. Come ha detto qualcuno, è impossibile “seguire” Bergoglio. Al massimo lo si può accompagnare. Nella mia relazione mi focalizzerò su 5 temi, che vogliono essere come i cinque capitoli di un libro:
1) Deus semper maior, le sorprese di Dio nel Pontificato di Francesco
2) Quella mattina a Casa Santa Marta, le omelie mattutine cuore pulsante del Pontificato
3) Senza gente non posso vivere, l’amore per il popolo del Pastore Francesco
4) Il Papa commentato sull’autobus, la sfida urgente della comunicazione
5) Tre rosari al giorno, Bergoglio un uomo immerso in Dio
Deus semper maior
Dio è sempre maggiore rispetto a noi, Dio ci sorprende sempre, Dio primerea, Dio ci “precede”, ci “anticipa”. In questo anno e mezzo di Pontificato di Bergoglio, abbiamo sentito tante volte ritornare sulla bocca del Papa questa affermazione declinata in diverse maniere. Francesco l’avrà sentita a sua volta in tantissime occasioni fin dai suoi primi passi da gesuita. La formula “Deus semper maior” la attinge infatti direttamente dal fondatore della Compagnia di Gesù, Sant’Ignazio di Loyola, che appunto parlava di un Dio sorprendente che è infinitamente più grande di noi e nonostante questo non ci schiaccia con la sua grandezza, anzi ha bisogno di noi, della nostra piccolezza. Sicuramente è un sentimento comune oggi nella Chiesa quello di vivere in un tempo ricco di sorprese, non solo e non tanto a partire dal 13 marzo del 2013, giorno dell’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires alla Cattedra di Pietro, ma ancor più da quell’11 febbraio 2013 in cui Benedetto XVI ha rinunciato al ministero petrino. Più di qualcuno pensa, ed io sono tra costoro, che il Pontificato sorprendente di Francesco sia iniziato con quell’atto impressionante e profetico del suo Predecessore. E’ lecito chiedersi: avremmo oggi un Pontefice inedito come Bergoglio, il “Pastore con l’odore delle pecore” che sta dando vita ad un Pontificato così originale, se Benedetto non si fosse dimesso?
Fatto sta che – quando in Conclave lo spoglio dei voti ha sempre più evidenziato che era arrivata l’ora del primo Papa gesuita e latinoamericano – l’arcivescovo Bergoglio avrà probabilmente pensato che Dio lo aveva anticipato ancora una volta, preparandogli una sorpresa inaspettata. Del resto, il giorno dopo la fumata bianca, un famoso vignettista italiano ritraendo il nuovo Papa con attorno i cardinali faceva dire a Francesco: “Mi hanno fatto una bella sorpresa. Ma non sanno che belle sorprese sto preparando io per loro”. Ricordo bene lo stupore che quella elezione suscitò anche in me. Otto anni prima, ero talmente sicuro che sarebbe stato eletto Joseph Ratzinger che alla fumata bianca, mi affrettai a realizzare il servizio biografico sul nuovo Pontefice prima ancora del fatidico Habemus papam del cardinale protodiacono che ne avrebbe svelato il nome. Otto anni dopo, nei giorni precedenti l’Extra omnes in Cappella Sistina, anche memori di quel pronostico azzeccato, mi fu dato l’incarico di preparare una serie di servizi suipapabili. Inutile fare i nomi, perché tutti li ricordiamo. Ovviamente Bergoglio non era tra loro. In quell’occasione ho imparato che lo Spirito Santo segue calcoli diversi dai book maker. Purtroppo l’ho scoperto solo quando il cardinale Tauran ha svelato che il futuro Vescovo di Roma sarebbe stato l’“Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum Georgium Marium… Sanctae Romane Ecclesiae Cardinalem Bergoglio”. L’annuncio è avvenuto alle ore 20.12. Alle 21 avremmo avuto la prima edizione del radiogiornale internazionale di Radio Vaticana. Avevo dunque 48 minuti per raccontare ai nostri ascoltatori chi era questo nuovo Papa venuto “desde la fin del mundo”. Come si sa, nel primo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali, Francesco ha definito Internet un “dono di Dio”. Sicuramente posso dire altrettanto perché senza le possibilità di ricerca offerte da Internet quella sera il mio servizio su “chi è Papa Francesco” sarebbe stato sicuramente inadeguato.
Come ricordato, citando S. Ignazio di Loyola, questo “elemento sorpresa” così caratterizzante l’azione di Papa Francesco ha una radice profondamente teologica. I grandi gesti di Francesco, fin dal primo indimenticabile inchinarsi e chiedere la benedizione del Popolo, non sono frutto di calcoli, ma di ascolto dello Spirito Santo. Per questo, quando qualcuno – tra amici o curiosi – mi chiede “dove vuole andare Bergoglio”, la mia risposta non è solo “non lo so”, il che è scontato, ma anche che “forse neppure il Papa lo sa”! E questo perché, come si capisce anche dalla lettura di Evangelii Gaudium, Francesco è più interessato a dare il via a dei processi dinamici piuttosto che a conquistare spazi. Il tempo è superiore allo spazio. Come ha esplicitato sin dal giorno dopo l’Elezione, la sua è una Chiesa che “cammina” e camminando “edifica e confessa” la fede nel Signore. Meglio incidentata, dunque, perché in movimento piuttosto che “tirata a lucido” (autoreferenziale) perché ferma. Da ciò deriva anche l’impossibilità di incasellare Bergoglio-Francesco nelle categorie “progressista-conservatore”, perché il suo è un pensiero volutamente incompiuto. Nella sua prima Esortazione apostolica, scrive che il Papa “non ha una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo”. Per questo è probabile che molte questioni da lui aperte non troveranno una risposta definitiva in questo Pontificato. Un Pontificato “in movimento” che sembra più interessato a porre le domande giuste che a offrire risposte affrettate e dunque insoddisfacenti. D’altro canto, per Francesco la “Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola” che spesso sfugge alle “nostre previsioni” e rompe “i nostri schemi”. Nel suo Pontificato si coglie tutta la tensione dialettica e feconda tra spirito e istituzione. Una dialettica che contrasta la tentazione dell’introversione ecclesiale, come l’aveva definita Giovanni Paolo II. Per entrambi, la Chiesa è “decentrata” (per Bergoglio lo è anche il gesuita), perché il centro è Cristo.
La docilità alle sorprese dello Spirito Santo concede, peraltro, a Papa Francesco di avere uno sguardo fiducioso sulle cose del mondo, anche in mezzo a sofferenze e lacerazioni che affliggono tanta parte dell’umanità. Ho avuto modo di parlare con diverse persone che hanno conosciuto il Papa dai tempi dell’Argentina e quando ho chiesto loro in che cosa trovavano fosse maggiormente cambiato Bergoglio, nel passaggio dalla diocesi di Buenos Aires a quella di Roma, la risposta è sempre stata: “Ora sorride molto di più”. Un sorriso che ricorda quello del suo amato Giovanni XXIII che, forse vale la pena di ricordare, incontrò – in alcuni ambienti clericali e non solo – critiche e mugugni per i suoi gesti sorprendenti, pr
oprio come accade oggi per il suo successore latinoamericano. Forse perché non si comprende pienamente che le “sorprese di Francesco” non sono fini a se stesse e sono sempre frutto di profondo discernimento. Per Bergoglio, “Dio non sai mai dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui”. Le sue sorprese dunque non sono “sue” ma di un Altro. E per questo sono come un enzima che dà nuova energia al popolo in cammino, una benzina per il motore della “Chiesa in uscita”. Qualcosa che tutti possiamo toccare con mano, guardando a quanto succede quotidianamente con le omelie di Francesco a Casa Santa Marta.
Quella mattina a Casa Santa Marta
Se tutti ricordiamo la data del 13 marzo, giorno dell’elezione di Francesco, altrettanto dovremmo tenere a mente, vista la sua importanza, la data del 22 marzo 2013, perché in quel giorno è iniziato a battere quello che molti considerano “il cuore pulsante” del Pontificato. Ricordo bene la sorpresa in redazione quando arrivò la notizia che il Papa aveva chiamato a raccolta netturbini e giardinieri del Vaticano e aveva celebrato Messa con loro nella piccola cappella di Casa Santa Marta, la nuova abitazione del Vescovo di Roma. Cosa si doveva fare? Il Papa aveva sì pronunciato un’omelia, ma era questa da considerarsi privata? Come avremmo dovuto raccontare questa novità dopo le tante già avvenute nella prima settimana di Pontificato? E soprattutto, il Papa aveva compiuto un gesto isolato o si apprestava a celebrare ogni mattina Messa con un gruppo di fedeli ai quali avrebbe offerto la sua meditazione sulla Parola di Dio? Come ormai ben sappiamo, quest’ultimo interrogativo avrebbe presto trovato risposta: sì, il Vescovo di Roma voleva iniziare ogni giornata non solo incontrando il Signore – come avviene per ogni sacerdote – ma anche incontrando una porzione del Popolo affidatogli da Dio, che nel suo caso coincide con il gregge universale. Dopo i primi giorni di comprensibile incertezza sul da farsi, fu deciso – per volontà del Santo Padre – che le omelie non fossero trasmesse o pubblicate integralmente (scelta che avrebbe forzato la dimensione familiare della celebrazione) ma che la Radio Vaticana e l’Osservatore Romano avrebbero provveduto la prima a fornire un servizio comprensivo di inserti audio della voce di Francesco e il secondo un articolo ampio che sintetizzasse l’omelia mattutina. Insomma, un’omelia da condividere più che da trasmettere. Una sfida appassionante che ho il privilegio di vivere quotidianamente essendo uno dei tre redattori della Radio incaricati di redigere il servizio sulla Messa a Santa Marta.
Ma perché queste omelie pronunciate poco dopo le 7 del mattino sono così importanti per capire il Papa? Innanzitutto, è Francesco stesso in Evangelii gaudium a sottolineare che l’omelia è la pietra di paragone per capire quanto il Pastore sia vicino al suo Popolo, quanto lo comprenda, quanto in definitiva sia capace di “sentire l’odore delle sue pecore”. L’omelia, dunque, non è un “bel discorso” studiato a tavolino, ma parola viva che sgorga dall’incontro con Gesù Cristo e con il popolo guidato dal pastore. Come sottolineato dal direttore della Sala Stampa Vaticana, il gesuita padre Federico Lombardi, “l’animo sacerdotale e pastorale” di Jorge Mario Bergoglio si manifesta proprio “nel rapporto quotidiano con i fedeli” nella celebrazione eucaristica. Così come è altrettanto evidente che le sue omelie sono quelle di un figlio di Sant’Ignazio “abituato ad aiutare le anime a cercare e trovare la volontà di Dio ogni giorno”. Sono omelie, ha sottolineato un altro gesuita, il direttore di “Civiltà Cattolica” padre Antonio Spadaro, che attingono direttamente agli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio.
Come gli Esercizi, infatti, le omelie di Francesco “permettono il dialogo tra Dio e il suo popolo”. Il suo modo di comunicare, tutto proteso verso chi ascolta, permette di “aggregare i cuori che si amano, quello del Signore e quelli del suo popolo”. Dunque, la Messa e più specificamente l’omelia da Santa Marta sono importanti perché rappresentano una chiave di lettura intima, senza filtri, per leggere a fondo non solo cosa pensa, ma soprattutto cosa “sente” il Pastore Francesco nell’ascolto-dialogo con il Signore e il suo Popolo. Nel maggio 2007 ero al Santuario di Aparecida come inviato della Radio Vaticana per la visita di Benedetto XVI in occasione della quinta Conferenza del Celam, la Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e del Caribe, nella quale ebbe un ruolo di spicco il cardinale Bergoglio. Una circostanza che mi colpì, e ancor più quando successivamente lessi che l’arcivescovo di Buenos Aires aveva avuto la stessa impressione, è che mentre i vescovi si riunivano per i lavori in un’ala del Santuario sentivano in sottofondo le preghiere e i canti dei fedeli nel grande tempio mariano. I pastori erano dunque accompagnati dalla preghiera del Popolo. Non è forse proprio quello che succede ogni mattina a Casa Santa Marta, dove l’omelia di Francesco “nasce” a contatto diretto con i fedeli che pregano nella piccola cappella dedicata allo Spirito Santo?
Del resto, che queste omelie siano una vera miniera da cui il Papa estrae gemme preziose (la perla del Vangelo) lo dimostra innanzitutto il fatto che i temi emersi a Santa Marta vengano poi ripresi e ampliati in documenti e discorsi. Significativo è il caso di Evangelii gaudium che, per certi aspetti, sembra un’antologia rielaborata delle omelie del mattino, tanto sono ricorrenti le tematiche e perfino le formule icastiche usate dal Papa nelle celebrazioni alla Domus Sanctae Marthae. Il linguaggio espressivo utilizzato è proprio uno dei punti forti di queste omelie brevi, essenziali, semplici ma soprattutto capaci di suscitare un moto del cuore in chi da esse viene raggiunto. A volte queste omelie arrivano come uno schiaffo, perché denunciano peccati e mancanze, soprattutto dei figli della Chiesa; altre volte come una carezza, come olio sulle ferite a lenire le sofferenze di tanti che si sentono rifiutati, scartati da un mondo malato di indifferenza. Queste omelie, pronunciate a braccio, ma frutto di preghiera e discernimento evangelico si caratterizzano anche per contenere sempre un’idea, un sentimento e un’immagine. In un’epoca che, notoriamente, viene definita “dell’immagine”, Francesco genera attraverso le sue omelie una serie di istantanee che ci fanno come vedere quello che il Papa sta dicendo. Alcune di queste immagini sono famose: dalla Chiesa “ospedale da campo” al “Dio-spray” alla “Chiesa-baby sitter” ai cristiani “con la faccia da museo” o dalla vita vanitosa come “bolle di sapone”. Sono immagini che fanno ormai parte della memoria collettiva non solo dei cattolici, ma del nostro tempo. E che vengono citate nei contesti più diversi, dalla politica allo sport, segno di una trasversalità che ben si accorda con la convinzione del Fondatore della Compagnia di Gesù che “Dio si trova in tutte le cose”.
Le immagini a cui ricorre Bergoglio sono inoltre di “facile memorizzazione” perché sono sempre legate ad un vissuto quotidiano che avvicina la Parola di Dio all’esperienza che ognuno di noi fa nella vita, sia esso un padre, una madre, un figlio, uno studente o un operaio. Le omelie di Santa Marta sono dunque, per utilizzare l’espressione di Gianni Valente – giornalista dell’agenzia vaticana Fides e amico del Papa – un “magistero day by day” che ha “l’orizzonte della quotidianità”. E che trova nel “Continente digitale” un terreno fecondo di condivisione. Resto sempre colpito nel riscontrare come, pochi minuti dopo la pubblicazione sul sito web della Radio Vaticana del servizio sulla omelia di Santa Marta, si metta in moto sui social network una conversazione globale sulla parola del Papa e dunque, in definitiva, sulla Parola di Dio. Succede così che gra
zie ai nuovi mezzi di comunicazione si ripeta ogni giorno il “miracolo” di una rilettura globale del Vangelo da parte del Popolo di Dio, innescata direttamente dalla riflessione del Successore di Pietro. Le mura della piccola cappella a Casa Santa Marta si allargano dunque fino a contenere il mondo intero. Si mette così in pratica quanto profeticamente aveva scritto, dieci anni fa, San Giovanni Paolo II nell’Esortazione Il Rapido Sviluppo. Un testo, pubblicato agli albori del fenomeno delle “Reti Sociali” e del Web 2.0. I nuovi media, scriveva Papa Wojtyla nel gennaio 2005, “si rivelano una provvidenziale opportunità per raggiungere gli uomini in ogni latitudine”, “formulando nelle modalità più diverse i contenuti della fede”. Francesco percorre quindi ogni via, anche quelle telematiche, per raggiungere il prossimo. Anzi, come ha osservato nel suo Messaggio per le Comunicazioni Sociali, incentrato sulla figura del Buon Samaritano, il cristiano è chiamato a capovolgere la prospettiva: non chiedersi chi è il nostro prossimo, ma farci noi stessi prossimi ad ognuno. Anche perché, come sottolineava Paolo VI nella Gaudete in Domino, e Francesco ripete: “Nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore”.
Senza gente non posso vivere
“L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è lussuoso. Ma alla fine è come un imbuto al rovescio. E’ grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri”. Queste parole di Papa Francesco, confidate al direttore della Civiltà Cattolica nell’ormai celebre intervista alle riviste dei gesuiti, hanno naturalmente avuto una vasta eco, anche perché, ancora una volta, Papa Bergoglio ha trovato un’immagine (l’imbuto al rovescio) efficace e comprensibile a tutti. Tuttavia, le premesse di questa scelta originale per un Pontefice sono già tutte racchiuse in quel suo “Vescovo e Popolo” con cui si è presentato alla Città e al Mondo la sera del 13 marzo del 2013. Se andiamo a vedere le foto che lo ritraggono ai tempi in cui era arcivescovo a Buenos Aires, non lo troveremo mai da solo: ora è in una piazza circondato da gente mentre si scaglia contro i trafficanti di esseri umani, ora è in metropolitana che conversa con il vicino di posto, ora è in una villa miseria mentre benedice mamme e bambini. Per Francesco il popolo è come l’aria. Non può vivere senza. Il vescovo argentino Victor Manuel Fernández, che lo conosce bene, ha affermato che Bergoglio “ha un luccichio negli occhi quando usa la parola popolo”.
I Pastori per lui oltre a stare “davanti al gregge per indicare la strada” devono saper anche essere “in mezzo al gregge per mantenerlo unito” e “dietro al gregge per evitare che qualcuno rimanga indietro e perché lo stesso gregge ha, per così dire, il fiuto nel trovare la strada”. Devono uscire, anche a rischio di incidenti e ammaccature. “Per rimanere fedeli bisogna uscire – ha detto da cardinale alla giornalista Stefania Falasca – rimanendo fedeli si esce”. “Sapete qual è il luogo dove è stato più presente Gesù nella sua vita terrena”, ha domandato una volta Francesco: “La strada!”, è stata la sua risposta. Parole che sono in particolare sintonia con quanto detto da mons. Carlos Osoro Sierra in una delle sue prime interviste dopo la nomina alla guida della diocesi di Madrid. “Il Signore – ha detto l’arcivescovo Osoro alla Cope – è possibile annunciarlo solo camminando e questo lo dice il Vangelo. Il Signore lo incontriamo sempre in strada”. Noi, ha aggiunto, “dobbiamo stare in strada dove sono gli uomini. A volte ci saranno cose che ci piacciono. Altre meno, però si deve stare con tutti e incontrarsi con tutti”. Un pensiero che ritroviamo nell’insistenza del vescovo di Roma nel chiedere a vescovi e sacerdoti, ma anche ai laici impegnati nella vita della Chiesa ad uscire, a non avere paura di andare nelle “periferie esistenziali”. Come ha detto ai vescovi brasiliani, in occasione della Gmg di Rio de Janeiro – in uno dei più bei discorsi finora pronunciati – “serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente”. Una Chiesa dunque che sappia imitare Gesù che si fa prossimo ai discepoli di Emmaus in fuga da Gerusalemme, li accompagna mostrando loro “il vero cammino”.
Che Francesco abbia particolarmente a cuore il binomio “Pastore-Popolo” (impossibile pensare all’uno senza l’altro) lo dimostra anche il fatto che i discorsi nei quali si rivolge ai vescovi hanno sempre un orizzonte ampio, di visionedella e sulla Chiesa: è successo così con i vescovi del Brasile, con quelli latinoamericani (sempre durante la Gmg), ma anche con i presuli asiatici in Corea ai quali ha indicato l’empatia come via privilegiata dell’evangelizzazione. E ancora con i nuovi vescovi consacrati tra il 2013 e il 2014 ai quali ha chiesto di “non essere guardiani di un fortino”, “di una massa fallita” ma di testimoniare con gioia la Buona Notizia, mantenendosi liberi da cordate e consensi interessati. Non sarà un caso se in queste occasioni, differentemente da molte altre, le aggiunte a braccio non sono state numerose, segno che il testo era proprio del Papa.
Come è noto, Francesco non perde occasione per esortare i vescovi a rendersi sempre disponibili quando i loro sacerdoti li cercano. E altrettanto chiede ai sacerdoti nei confronti dei loro parrocchiani. Un’esortazione che mi è tornata alla mente, qualche tempo fa, un pomeriggio in cui mi stavo recando a prendere l’auto parcheggiata in Vaticano. Appena superata la Fabbrica di San Pietro, mi sono reso conto che c’era qualcosa di inconsueto: nel piazzale davanti Casa Santa Marta, uno spazio di norma sgombro per ovvi motivi di sicurezza, s’erano radunate alcune decine di persone. Ma a guardar bene, mi resi conto che in mezzo a loro c’era anche il Papa che parlava e si prestava per le immancabili foto di rito. Ho aspettato che Francesco rientrasse nella Domus e incuriosito sono andato a chiedere informazioni. Un sacerdote, con naturalezza, mi ha spiegato che era alla guida di un gruppo di pellegrini bresciani venuti a pregare sulla tomba di Paolo VI. Avevano pensato di far sapere la cosa a Papa Francesco e questi, senza pensarci due volte, li aveva voluti incontrare informalmente.
Questo amore per il “pueblo santo fiel à Dios”, come ama ripetere, ci dice molto anche della visione di Chiesa che ha Papa Francesco. Innanzitutto, come ha spiegato il padre gesuita argentino, e suo amico, Juan Scannone, l’azione di Bergoglio si inserisce nell’ambito della teologia del popolo che è una corrente teologica originale della Chiesa argentina, che muove da una rilettura latinoamericana della Costituzione pastorale Gaudium et Spes attraverso ilDocumento di PueblaDocumento di Aparecida, dove è fortissima l’impronta dell’arcivescovo di Buenos Aires, e ora nell’Evangelii Gaudium, Papa Bergoglio introduce la categoria della “mistica popolare”. E insiste nel ricordare che Dio ha scelto di convocare gli uomini “come popolo e non come esseri isolati”. E’ dunque in questa cornice che va inserita la sua accentuata opzione preferenziale per i poveri. Le ragioni non sono sociologiche, ma profondamente teologiche. Francesco non è un sindacalista (seppure non gli manca la passione per i diritti dei lavoratori come si è visto nell’incontro con i disoccupati a Cagliari), ma un pastore. Per lui, i poveri “hanno
molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. E’ necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro”. Parole che fanno venire in mente Madre Teresa che non si stancava di ribadire che aiutando i poveri, noi stessi veniamo aiutati da loro. Cresciamo nella comprensione di Dio. Un’affermazione che sintetizza bene quanto Francesco propone con la cultura dell’incontro, che rompe lo schema “io do, tu ricevi” per sostituirlo con “io do, ma sempre ricevo anche da te”.
Amore per il popolo e cultura dell’incontro, due pilastri del Pontificato di Francesco che evidenziano come per lui la Chiesa non sia solo faro che illumina di lontano, ma anche fiaccola che passa di mano in mano per fare luce dove ce n’è più bisogno. Come ha indicato con una formula icastica, un altro gesuita argentino, padre Diego Fares, quello di Bergoglio è un pensiero campana che convoca tutti, tutti chiama all’incontro. Ma è anche un pensiero scarpa, che “pensa uscendo all’incontro, accompagnando, mettendosi nel fango, peregrinando con il suo popolo”.
Il Papa commentato sull’autobus
A Buenos Aires, come è ampiamente documentato, Jorge Mario Bergoglio utilizzava i mezzi pubblici per spostarsi da un posto all’altro della metropoli. Qualcosa che gli è ora impedito a Roma, anche se le sue parole e ancor più i suoi gesti camminano su metro e autobus nella conversazione dei pendolari. “Hai visto cosa ha fatto il Papa? Hai sentito cosa ha detto Papa Francesco?”. La prima volta che ho sentito queste domande in bocca a dei giovani studenti che si recavano a scuola sono rimasto molto stupito. Si è abituati a sentire i ragazzi chiacchierare di calcio o su qualche personaggio televisivo, non commentare gli atti di un Pontefice. Tuttavia, grazie al suo linguaggio comprensibile a tutti e la capacità innata di essere un “generatore” di gesti simbolici, Francesco è entrato immediatamente nella conversazione collettiva, in modo trasversale senza distinzioni di età e preparazione culturale. In un qualche modo, con il suo stile comunicativo tutto orientato verso chi ha davanti (ritorna la cultura dell’incontro), Francesco ha invertito il paradigma secondo cui “più stai in alto, più sei autorevole”. Lui dimostra invece che “più sei in mezzo agli altri, più sei davvero ascoltato”. E questo lo ha “codificato” nel suo primo Messaggio per le Comunicazioni sociali dove afferma che il “potere” della comunicazione è la “prossimità”. Effettivamente, come ha rilevato padre Antonio Spadaro, Papa Francesco più che comunicare, crea degli “eventi comunicativi” che non lasciano fuori nessuno. Tutti sono partecipi, tutti sono coinvolti. E’ quello che è successo fin già dal primo Urbi et Orbi la sera dell’Elezione: il nuovo Papa ha chiesto che il popolo lo benedicesse prima di impartigli la sua benedizione, quindi che assumesse un ruolo attivo, e poi ha chiesto di pregare assieme a lui.
“Eventi comunicativi” ed “aperti” alle sorprese di Dio e del suo Popolo. Così gli Angelus e soprattutto le udienze generali in Piazza San Pietro mantengono sempre un elemento di imprevedibilità perché Papa Francesco cambia o integra il testo preparato per la catechesi in base a quello che gli ha suggerito l’incontro con i fedeli presenti. Può capitare, dunque, che passando con la papa-mobile tra i pellegrini venga colpito da una persona, da un gruppo o un coro. In un’occasione, per esempio, aveva ascoltato la folla gridare “Francesco! Francesco!”, così quando ha preso la parola ha ammonito bonariamente i fedeli: “Non Francesco, ma Gesù!”. Partendo da un semplice “dettaglio” di quella udienza, Bergoglio ha lanciato un messaggio molto forte ed efficace sulla centralità di Cristo che è ben superiore a quella del Papa.
Se non sembra irriverente, e penso che non lo sia per un argentino fosse anche il Papa, Francesco quando parla sembra quasi che balli il tango, un ballo che non si può fare da soli e che non si può fare senza passione, senza partecipazione intensa di mente e cuore. In una parola senza “condivisone”. La sua è una comunicazione che non è mai solo verbale, ma anche corporea. Comunica con le sue mani, i suoi sorrisi, perfino con il suo accigliarsi o una smorfia della bocca. Il biblista don Matteo Crimella ha notato che la sua comunicazione “si sente”, specie quando parla a braccio distaccandosi dal testo. “Si sente – ha affermato alla Radio Vaticana – che anche fisicamente alza i fogli, e quindi non legge, e guarda le persone con cui sta parlando. Viene alla mente un celebre detto del Talmud: ciò che esce dal cuore entra nel cuore”.
Ma come è strutturato il linguaggio di Jorge Mario Bergoglio? Con una sintesi giornalistica potremmo dire che è ignaziano nel ritmo, francescano nello stile. Di certo è che il focalizzarsi sempre su tre punti, tre fuochi nei suoi discorsi deriva direttamente dagli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio. Le sue frasi sono brevi (perfette per essere contenute in un tweet), hanno poche subordinate e i vocaboli utilizzati sono quelli di uso comune. Pensiamoci bene: i Vangeli non sono scritti proprio così? “Gesù – diceva Borges che conobbe Bergoglio quando era un giovane professore di lettere – pensava per parole e usava frasi che facevano colpo”. Penso che comprendiamo bene cosa intenda, perché potremmo dire lo stesso proprio dell’attuale Successore di Pietro. Francesco si ricollega poi al sermo humilis di cui fu maestro Sant’Agostino: il suo modo di parlare é semplice e inclusivo, aperto a tutti, immerso nella contemporaneità pur comunicando un messaggio senza tempo e sempre nuovo. E’ semplice (non semplicistico) perché la verità non ha bisogno di cosmetici per essere più bella. Nell’omelia di Santa Marta del 23 settembre scorso, il Papa ha affermato appunto che il Vangelo è semplice, ma noi lo rendiamo complicato con tante, troppe interpretazioni. Francesco, come i suoi amati Dostojevski e Tolstoj, è convinto invece che proprio la semplicità aiuta l’affermazione della verità. E come Paolo VI nella Evangelii nuntiandi – definita da Bergoglio il documento pastorale più importante che sia stato scritto fino a oggi – ritiene che i fedeli ricavano frutto dalla predicazione “purché essa sia semplice, chiara, diretta, adatta”.
Tutte queste caratteristiche del modo di comunicare di Francesco hanno permesso anche un piccolo “miracolo”: lo straordinario successo sui Social Network di un Papa che, per sua ammissione, non ha mai fatto uso delle nuove tecnologie di comunicazione. Da cardinale, intervistato nel 2009 dai giornalisti argentini Rubin e Ambrogetti, Bergoglio aveva candidamente affermato che avrebbe cominciato ad usare Internet una volta andato in pensione. A differenza di molti porporati non ha mai avuto un suo account Twitter. Qualcuno aveva dunque presagito che, una volta eletto Papa, avrebbe chiuso l’account pontificio, aperto con coraggio e lungimiranza da Benedetto XVI. Invece, @Pontifex è una storia di successo: dopo un anno e mezzo di Pontificato conta 15 milioni di follower e ogni giorno i tweet del Papa sono una goccia di speranza, uno spunto di meditazione nella vita di tante persone che “abitano” il Continente digitale. Il cardinale che non concedeva interviste è dunque diventato il Papa che sta liberando energie ed immaginazione nuova per comunicare il Vangelo agli uomini del nostro tempo. Anche qui, la lettura è teologica. “La Chiesa – ha detto solo tre giorni dopo la sua elezione, parlando proprio ai giornalisti – esiste per comunicare proprio questo: la Verità, la Bontà e la Bellezza in persona. Dovrebbe apparire chiaramente che siamo chiamati tutti non a comunicare noi stessi, ma questa triade esistenziale che conformano verità, bontà e bellezza”.
Tre rosari al giorno
Una volta un giornali
sta chiese a Madre Teresa di Calcutta quale fosse il “segreto” del successo. La Beata non ci pensò un attimo e rispose: “Prego”. Questo episodio della vita della grande testimone della carità mi torna spesso alla mente quando anche io mi chiedo quale sia il “segreto” del successo di Jorge Mario Bergoglio. A mio parere, non si può comprendere la sua originalità, i suoi gesti, le sue novità se non si parte dalla preghiera, dalla relazione con Dio che permea e conforma l’essere e il fare di Papa Francesco. D’altro canto, stiamo parlando di un figlio di Sant’Ignazio per il quale azione e orazione si compenetrano, in actione contemplativus. Anche il Beato Montini, d’altronde, era persuaso che la vera predicazione “è comunicare agli altri ciò che uno ha contemplato”. Le analisi sociologiche, politiche, culturali restano perciò inevitabilmente in superficie. Non vanno al nucleo. E dunque sono monche quando non rischiano di essere fuorvianti, strumentali. Pensiamo per esempio con quanta insistenza, fin dai suoi primissimi pronunciamenti, Francesco abbia messo in guardia dal voler ridurre la Chiesa ad una Ong. Se la Chiesa non prega, non annuncia, ha poi ripetuto tante volte nella cappella di Casa Santa Marta, diventa una struttura burocratica. Infondo, il suo primo atto da Papa – dalla Loggia centrale di Piazza San Pietro – è stato proprio quello di chiedere di pregare assieme a lui. Anche quella che è la sua grande chiamata missionaria ovvero l’uscire da se stessiper andare a toccare la carne di Cristo sofferente nei poveri ha una radice nell’adorazione, nello stare davanti a Cristo. Non nasce dalla lettura di un trattato di antropologia. “La preghiera – si legge in Reflexiones en esperanza, testo del 1992 di Bergoglio – è il luogo privilegiato dell’esilio; lì si dà la rivelazione (lì cominciamo a capire qualcosa) ossia il passaggio da quello che uno pensa di Dio a quello che Egli è veramente”.
Francesco sa che la cosa più concreta che può fare un cristiano è pregare. Ecco perché per fermare l’estendersi del conflitto in Siria ha indetto una Giornata di preghiera e digiuno, come aveva fatto Papa Wojtyla per fermare la guerra in Iraq. Anche per il Sinodo sulla famiglia, momento chiave del suo Pontificato, Francesco ha chiesto alla comunità di fedeli di pregare. E così fa per la sua persona e il suo ministero pastorale. “Prega per me”: chi ha avuto il privilegio di poter incontrare il Papa sa che le sue ultime parole prima di congedarsi sono sempre una richiesta di preghiera. Alla fine della Messa a Casa Santa Marta, tolti i paramenti del celebrante, Francesco si va a sedere in mezzo ai fedeli per un momento di preghiera. Un’immagine fortissima: il pastore prega con il popolo. Di più prega in mezzo al popolo. E il pastore non deve aver paura di lottare con Dio nella preghiera per il suo popolo, come fa Mosè che combatte contro Amalek con le mani levate al cielo. Ma come prega quotidianamente Francesco? Per il primo anniversario di Pontificato ho potuto intervistare il suo segretario particolare don Alfred Xuereb, adesso segretario del neonato dicastero vaticano per l’Economia. Il sacerdote maltese, già segretario in seconda di Papa Benedetto, mi ha confidato che quando Francesco “sente il bisogno di prendere un momento di pausa, non è che chiude gli occhi e non fa niente: si mette seduto e prega il rosario. Penso che almeno tre rosari al giorno, li prega. E mi ha detto: Questo mi aiuta a rilassarmi”.
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Alessandro Gisotti è vice-caporedattore di Radio Vaticana e fellow del Centro studi e ricerche “Tocqueville-Acton”