Sono oltre venti i Paesi rappresentati nella comunità religiosa e accademica del Seraphicum che, dopodomani (giovedì 16), festeggerà i 50 anni dell’inaugurazione della nuova sede all’Eur.
Una delle principali peculiarità di questo centro formativo è proprio l’internazionalità che ha permesso, in decenni e decenni, di formare religiosi e laici al servizio della Chiesa in ogni parte del mondo.
Anche qualche nome che ha fatto la storia, e non solo della Chiesa, come p. Massimiliano Maria Kolbe, il santo martire di Auschwitz, dal 1912 al 1919 studente al Seraphicum con la matricola 126. Un’eredità importante, custodita con la volontà di mantenere viva questa presenza laddove p. Kolbe trascorse gli anni della formazione, dando vita alla Milizia dell’Immacolata nell’allora sede di via san Teodoro.
Nel 1964 il trasferimento all’Eur per rispondere alle esigenze di nuovi e più ampi spazi, con l’intento di dare continuità anche qui alla testimonianza del frate martire, attraverso l’istituzione della Cattedra Kolbiana che ha come scopo l’approfondimento delle problematiche e delle sfide umane e spirituali dell’uomo e della donna di oggi, credente e non credente, alla luce del pensiero e della testimonianza del santo polacco.
Oggi il Seraphicum contauna variegata rappresentanza internazionale, con 23 Paesi rappresentati (Italia, Romania, Polonia, Messico, Kenia, Croazia, Libano, Brasile, Corea del Sud, India, Sri_Lanka, Venezuela, Zambia, Bolivia, Cina, Turchia, Filippine, Ghana, Slovacchia, Irlanda, Spagna, Slovenia e Vietnam).
Una ricchezza di lingue, culture e tradizioni alle quali – nei mesi estivi abitualmente dedicati all’insegnamento della lingua italiana agli studenti stranieri che frequenteranno la Facoltà o altri centri di formazione dell’Ordine – si è aggiunto anche un monaco del Monte Athos, arricchendo ulteriormente gli scambi interculturali e i rispettivi percorsi di fede.
“La sfida che questa realtà ci pone – spiega il Guardiano fra Felice Fiasconaro – è quella di passare dalla multiculturalità all’interculturalità. Questo esige da parte di tutti l’impegno per una cultura del relazionale che presupponga una conoscenza priva di pregiudizi negativi o complessi di superiorità dominante o colonizzante. Nella visione interculturale della vita fraterna, l’altro, il diverso, è l’uomo fratello, l’uomo dono, l’uomo con cui sono chiamato a dialogare, ad entrare in comunione, a cui sono capace di donare e da cui so anche ricevere. Per questo ogni cultura, ogni diversità è un bene da condividere e non una realtà a cui adattarsi”.