La vocazione sacerdotale di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI si sviluppò e maturò soprattutto in famiglia. L’esempio del padre, avvocato Giorgio, battagliero giornalista cattolico, e della madre, Giuditta Alghisi, generosamente impegnata in opere di carità, segnarono le sue riflessioni di ragazzo e le scelte della sua vita.
Decise di diventare sacerdote quando aveva circa 18 anni. Ma non potè frequentare regolarmente la vita del Seminario per via della salute, cagionevole e gracile. Fu, quindi, un alunno esterno del Seminario di Brescia.
Venne ordinato sacerdote nel maggio 1920 ed era tale la sua preparazione culturale che, nonostante la salute precaria, il suo vescovo decise di inviarlo a Roma per approfondire gli studi nelle università vaticane.
Tra il 1920 e il 1923, Montini frequentò i corsi di Diritto civile e di Diritto canonico presso l’Università Gregoriana e quelli di Lettere e Filosofia presso l’Università statale, la Sapienza. Contemporaneamente seguì i corsi della Pontificia Accademia Ecclesiastica, l’istituzione in cui si formano i sacerdoti che si preparano a far parte del servizio diplomatico della Santa Sede.
Nel maggio del 1923, iniziò la carriera diplomatica presso la Segreteria di Stato Vaticana. Per un breve periodo venne inviato a Varsavia, come addetto alla Nunziatura Apostolica polacca. Rientrato in Italia nell’ottobre del 1924, ricevette l’incarico di Assistente ecclesiastico del Circolo romano della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), e l’anno successivo quello Assistente ecclesiastico nazionale della stessa Federazione, carica che tenne fino al 1933.
Nella FUCI, Montini portò il suo entusiasmo, la sua straordinaria preparazione culturale e spirituale. In quel periodo, che fu tra i più difficili, a causa delle persecuzioni messe in atto dal Fascismo che voleva il monopolio sull’educazione dei giovani, la FUCI raggiunse il più alto fulgore della sua storia.
Sotto la guida di Montini, i giovani cattolici universitari diedero vita a una straordinaria attività con iniziative di approfondimento teologico che illuminavano tutti i settori della formazione e dell’azione pratica, non solo religiosa, ma anche culturale, artistica, letteraria, sociologica. Si formarono, in quell’ambiente e con quelle idee, uomini che ebbero poi ruoli importanti anche nella storia politica italiana, come Aldo Moro, Mario Scelba, Guido Gonnella.
“Nel 1924 io ero studente universitario in medicina a Roma”, mi ha raccontato il dottor Ugo Galli, medico chirurgo di Bergamo. “Ed ero iscritto alla FUCI. Giovanni Battista Montini, il nuovo assistente ecclesiastico nominato da Papa Pio XI, aveva allora 27 anni. Sprigionava un carisma straordinario e conquistò subito le simpatie di tutti. Anche degli universitari che non facevano parte della FUCI, anzi erano nostri avversari”.
“Montini era un giovane prete aperto alle idee nuove, sensibile alle esigenze del giovani, ma dominato da una ferrea disciplina, pronto a qualsiasi sacrificio per ubbidire alle disposizioni dei superiori. Anche quando era di opinione diversa, non ammetteva la disubbidienza: discuteva, esponeva il suo punto di vista e poi ubbidiva”.
“Quelli erano tempi molto difficili per la FUCI. II fascismo aveva dichiarato guerra alla nostra organizzazione e voleva distruggerla. Le nostre riunioni, le manifestazioni pubbliche, i convegni finivano sempre a botte fra noi e i fascisti. Montini era antifascista convinto e deciso, ma ha sempre cercato di frenare il nostro sdegno, la nostra esuberanza. Era nemico della violenza, da qualunque parte provenisse”.
“Durante la processione del Corpus Domini del 1926 accaddero gli scontri più violenti. Terminata la cerimonia, mentre tornavamo a casa, in corso Italia, vidi un “fucino” che era stato aggredito dai fascisti. Diedi l’allarme e mi buttai nella mischia per difendere il mio amico. Scoppiò una lite vastissima, che si propagò in altre parti della città. Io fui pestato a sangue e ricoverato al Policlinico. A sera venne a trovarmi Montini. Era triste. Condannò con amare parole quello che era accaduto ma insieme mi esortò alla calma e alla serenità”.
“Il giorno dopo, assieme ad altri “fucini”, mi portò in Vaticano per esporre a monsignor Giuseppe Pizzardo, che era allora Sostituto della Segreteria di Stato, quanto era accaduto, forse nella speranza che venisse informato il Papa. Monsignor Pizzardo fu generoso di parole ma ritenne prudente non parlare con Pio XI. Una settimana dopo andai in udienza dal Papa con un gruppo di “fucini”. Visto il mio occhio ancora bendato, il Papa chiese cosa mi fossi fatto. Gli raccontarono dei fatti del Corpus Domini. Pio XI si congratulò con me e poi rimproverò fortemente monsignor Pizzardo: “Perché queste cose non mi si dicono?”
“Nella FUCI tutti avevano un grande affetto per Montini che era stimato per la sua intelligenza, per la sua cultura, ma soprattutto per la sua bontà”.
“All’interno della FUCI, aveva creato un gruppo di giovani e ragazze che si dedicavano all’aiuto dei poveri. Tutte le settimane andava con loro nei quartieri di periferia, tra la gente che viveva di miseria materiale e morale, e restava tra loro anche se a volte lo accoglievano con fischi e bestemmie. Portava cibo, vestiti, si intratteneva in lunghe conversazioni, si interessava dei bambini, degli ammalati”.
“Questa attività di Montini in mezzo ai giovani universitari durò fino al 1933. Cessò quando a Montini vennero affidati incarichi pia importanti in Vaticano. Negli ultimi tempi, però, erano state emanate disposizioni che proibivano le conferenze e le assemblee miste dei “fucini”. Si voleva che le ragazze stessero da una parte e i giovani da un’altra. La disposizione venne molto criticata”.
“Anche Montini era contrario ma ancora una volta egli ci diede l’esempio di come deve agire un buon cattolico: esporre le proprie idee e poi ubbidire. Così fece anche in quell’occasione, sia pure con molto dolore”.
“Un episodio che ricordo con viva impressione e che dimostra la grande sensibilità religiosa di Montini e la sua apertura di vedute, è legato alla morte di un “fucino”. Era uno studente di musica, molto bravo. Soffriva di esaurimento e aveva una malattia agli occhi che stava per renderlo cieco. Preso dallo sconforto, si uccise. Fu un grave dolore per tutti ma chi sofferse di più fu Giambattista Montini. Appariva sconvolto ma anche nel dolore non perse la sua calma. Informò i parenti, fu molto vicino alla famiglia e organizzò il funerale”.
“Allora, la Chiesa non permetteva il rito religioso ai suicidi. Nessuna persona che si era tolta la vita poteva essere portata in Chiesa, e veniva sepolta in una parte del cimitero dove la terrà non era stata consacrata. Questo situazione aggiungeva un dolore immenso ai parenti del suicida. Ma Montini non condivideva quelle disposizioni ecclesiastiche. Diceva che molto spesso i suicidi erano persone disperate, che ricorrevano a quel gesto estremo in condizioni di grandissima depressione e quindi di grande confusione spirituale”.
“Diceva che bisognava avere pietà di loro, non giudicare e che certamente la misericordia di Dio gli avrebbe perdonati. Conosceva bene quel giovane ed si diceva certo che non avrebbe mai commesso un gesto del genere per offendere Dio. Insomma tanto fece che riuscì a ottenere dalla Curia romana il permesso di celebrare il funerale religioso per quel suo giovane. E questo episodio dimostra chiaramente quanto egli fosse aperto verso nuove interpretazioni delle regole disciplinari ecclesiastiche e quanto viva e grande fosse la sua Fede in Dio”.
Nel 1933, Montini passò a nuovi incarichi. Lasciò la FUCI con grande dolore. Non solo perché chiudeva un periodo della sua attività pastorale con i giovani, periodo denso di attività, di entusiasmi, di iniziative e anche di lotte. Ma anche perché egli era
amareggiato e non condivideva lo stile di “conciliazione” che la Chiesa stava tenendo nei confronti del Fascismo”.
In quegli anni erano state sciolte le cooperative cristiane, i sindacati cristiani, gli Scout, la Federazione autonoma delle associazioni sportive cattoliche. La Fuci era stata ridotta a organizzazione diocesana. Il giovane Montini non condivideva, ma, come sempre teneva il dissenso dentro di sé e obbediva ciecamente ai suoi superiori. Non senza, però, ragionare su quanto accadeva”.
E a un suo scritto, che porta la data del luglio 1933, sotto il titolo “Rinuncia”, affidò queste amare, addolorate e profetiche riflessioni: ‘La cosa più difficile a comprendersi in quest’ora grave e tumultuosa è come la Chiesa debba rinunciare a molte istituzioni e attività sorte sotto la sua ispirazione e per la sua protezione quando queste cose non rappresentavano già per la Chiesa né un pericolo per la dottrina né un disordine per la disciplina ma una emanazione cosciente, forte, docile, onesta di vita sociale, e come sembri, e forse per divina disposizione sia, ciò un vantaggio per la vita interiore religiosa della Chiesa”.
“Se questo patrimonio che le è tolto fosse stato cattivo o pericoloso sarebbe la cosa più spiegabile al nostro bisogno di scoprire le vie della Provvidenza. Ma questa privazione sembra, ed è, il distacco di forze oneste e vive ed è compiuto da forze non certo cristiane. La Chiesa sembra doversi migliorare per una violenza che è fatta a figli e cose sue e forse Dio vuole proprio che il sacrificio sia compiuto quando queste cose e i figli sono buoni e fedeli e utili perché sia sacrificio meritorio di chissà quali future fortune. Ma quanta fame di giustizia appare insoddisfatta in quest’ora penosa e forse salutare”.