Un Decamerone dei nostri giorni, anzi ambientato in un ipotetico vicinissimo futuro. Un’insegnante e quattro suoi alunni si incontrano nella solita aula e ne viene fuori una lezione anticonvenzionale: una riflessione molto sofferta sull’umanità dolente, in una società dove tutto è meccanizzato, la tecnica è fine a stessa e gli uomini, da fini, sono diventati dei mezzi.
Memorie di una casa viva (Besa, 2014) è il secondo romanzo di Elisabetta Cipriani, 38enne insegnante di lettere pistoiese, un’opera “distopica” costruita sullo scenario di una società globalizzata, omogenea, autoreferenziale e “tecnotrofica”.
In un mondo dove di naturale e genuino non vi è più nulla e la gente va in giro con dei microscopici life-phone innestati nella retina, l’unica forma di dibattito che ancora sussiste è quella di gruppi neo-luddisti che propugnano “il ritorno coercitivo alle grotte, al vegetarianesimo di raccolta, al nomadismo di bacche e radici”.
A detta di molti, però, queste rivolte non sono altro che una messa in scena del “Partito tecnotrofo”, quasi fossero “la sua ombra, la sua macchietta, la sua contraddizione tollerata; foraggiata per dare in pasto al popolo un diversivo, qualcosa di cui aver paura e di cui mormorare”.
In questo scenario opaco, spettrale e paradossale, la penna arguta e visionaria dell’Autrice, quasi come una telecamera, va a “zoomare” sulla vicenda specifica di cinque persone: la professoressa Ilaria Folli – una di quelle insegnanti che “amano i propri alunni, sebbene non possano ammetterlo neppure sotto tortura” – e i suoi quattro allievi, Emanuele, Giacomo, Chiara e Carmen.
Il resto della classe è rimasta a casa, per paura di disordini in città, a causa della solita manifestazione neoluddista. La totale anomalia della situazione provocherà una rottura degli schemi e del convenzionale rapporto docente/alunno, traghettando l’informale conversazione dei cinque verso un’immersione negli abissi dell’esistenza umana.
Cinque personaggi in cerca di una storia: ognuno racconterà la propria. Non le proprie storie personali, ma comunque storie di vita vissuta, profonde e drammatiche, per quanto alcune estreme e grottesche.
Le vicende di Stormymark, musicofilo idealista, di Joel e del suo fratello demente, dell’eroe di piazza Tien An Men, della stoica Iulia, una rumena, vittima della politica antinatalista del suo paese, e dell’anoressica con il suo monologo pseudo-teatrale, sono veri e propri “fiori nell’asfalto”, sussulti di un’umanità che grida e che vuole venir fuori, soffocata nei meandri di una post-modernità assurda, ottusa e crudele.
È nel contesto apocalittico di assoluta emergenza in cui prende forma la vicenda di questo breve romanzo che avviene il ‘miracolo’ finale: un’insegnante si è riappropriata del suo ruolo ed ha conquistato i suoi allievi alla bellezza della vita. Li ha scossi, li ha avviati sulla via del cambiamento.
Come scrive nella post-fazione il giornalista e scrittore Alessandro Zaccuri, l’esperienza fatta dalla professoressa Folli e dai suoi quattro allievi mette “la realtà a testa in giù, per obbligarla a mostrare il suo vero volto”. Quindi, anche quando sta per scatenarsi il finimondo, il nostro compito è quello di “continuare ad imparare, continuare ad insegnare” e “rimanere testimoni, accada quel che accada”.