All'amore ci si affida, non si può possederlo

Lectio divina per la 27ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 27ª Domenica del Tempo Ordinario – Anno A.

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Rito Romano – XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A – 5 ottobre 2014

Is 5,1-7; Sal 79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

Rito Ambrosiano – VI Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore

Gb 1,13-21; Sal 16; 2Tm 2,6-15; Lc 17,7-10

         1) Frutti d’amore.

            Il brano evangelico di oggi si apre con l’immagine della vigna, molto frequente nell’Antico Testamento per indicare, di volta in volta, il regno di Dio o il suo popolo o anche la donna amata. E’ evidente il nesso con la prima lettura, il “cantico della vigna” di Isaia (5, 1-7), che descrive poeticamente tutta la cura e l’attenzione che Dio ha per il suo popolo. Dal questo popolo tanto amato Dio si aspetta frutti che però il popolo non dà.

            Comunque è bella questa immagine di Isaia di un Dio appassionato, che fa per ciascuno di noi ciò che nessuno farà mai; un Dio contadino che, come fa ogni contadino, dedica alla vigna più cuore e più cure che ad ogni altro campo. Dio ha per ciascuno di noi una passione che nessuna delusione spegne, che non è mai a corto di meraviglie, che ricomincia dopo ogni nostro rifiuto ad assediare il nostro cuore.

            Dunque, prima di ogni altra cosa, prima di qualsiasi azione, sostiamo dentro questa esperienza: sentire di essere vigna amata, lasciarci amare da Dio. Non ciascuno di noi non è altro che una vite piccolina, ma a ciascuno di noi, proprio a ciascuno di noi Dio non vuole rinunciare.

            Il frutto che Dio attende è come quello della vite: se ogni albero si preoccupasse solo di se stesso, solo di riprodursi, basterebbero pochi semi ogni molti anni, un frutto solo. E invece, ad ogni autunno, è un’abbondanza di frutti, una generosità magnifica offerta a tutti, all’uomo, al piccolo insetto, alla terra nutrice: la generosità della natura è un modello per il cuore dell’uomo.

            Isaia, in questo suo cantico, dice che è una storia che non può continuare all’infinito. E’ necessario un giudizio (Is 5,3). Dunque non resta che il castigo: la vigna cadrà in rovina, non sarà più coltivata e vi cresceranno rovi e pruni. Ma il castigo di Dio non è mai per sempre. Le minacce di Dio sono per convertire, non per distruggere.

            Gesù, in questa sua parabola, riprende alcune frasi del “cantico della vigna” di Isaia, con il quale questo grande Profeta descrive in profondità la storia del popolo di Israele di cui Dio ha cura con amore fedele, e precisa che la questione principale non è la produzione di frutti più o meno buoni, ma la volontà dei vignaioli di voler togliere la vigna al Padrone. I contadini non vogliono riconoscere il padrone come tale. Questo è il loro peccato. Si comportano come se la vigna appartenesse a loro. E quando uccidono il Figlio[1] del Padrone, lo dicono chiaramente: vogliono farsi eredi e padroni. Ma rifiutando la signoria di Dio, rifiutano la pietra angolare, l’unica che tiene il mondo in piedi. Senza il riconoscimento di Dio, il mondo non sta in piedi, la convivenza si frantuma.

            Se ci mettessimo nella logica amara e violenta dei vignaioli, ne ripeteremmo le parole insensate e brutali: “Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità”. Se dessimo ascolto a questa risposta rozza e brutale, faremmo continuare le vendemmie di sangue, che arrossano il mondo.

            Se alla domanda di Cristo: “Che cosa farà il padrone della vigna dopo l’uccisione del figlio?”, la nostra risposta fosse analoga alla soluzione proposta dai giudei, avremmo una punzione esemplare, nuovi vignaioli, nuovi tributi, ma un mondo vecchio. Questa idea di giustizia riporterebbe le cose un passo indietro, a prima del delitto, mantenendo intatto il ciclo immutabile del dare e del prendere o, più precisamente, del pretendere.

            Gesù dà una risposta che allarga il cuore alla speranza: l’esito della storia sarà buono, la vigna sarà generosa di frutti, il Padrone non sprecherà i giorni dell’eternità in vendette. Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti, che sono l’amore, e si pone come pietra angolare, garante di amore saldo.

            Se come pietre vive siamo chiamati ad essere la Chiesa viva di Cristo. Come tralci dobbiamo aderire a Lui, che è la vite, così vivremo nell’amore e dell’amore, nell’essere amati e nell’amare il Signore.

            Dio non si arrende e offre un nuovo modo per arrivare ad un amore libero, irrevocabile, al frutto di tale amore, alla vera uva: manda suo Figlio, che si fa uomo. Così Dio stesso diventa radice della vite, diventa la vite, e così la vite diviene indistruttibile. Questo popolo di Dio non può essere distrutto, perché Dio stesso vi è entrato, si è impiantato in questa terra. Il nuovo popolo di Dio è realmente fondato in Dio stesso, che si fa uomo e così ci chiama ad essere in Lui la nuova vite e ci chiama a stare, a rimanere in Lui.

            2) La gioia dell’amore.

            Qual è lo scopo della vite? Quello di dare frutto, di dare il dono prezioso dell’uva, del vino buono.

            Il vino è simbolo, è espressione della gioia dell’amore. Il Signore si è scelto il suo popolo per avere la risposta del suo amore e così questa immagine della vite, della vigna, ha un significato sponsale. La vite è espressione del fatto che Dio cerca l’amore della sua creatura, vuole entrare in una relazione d’amore, in una relazione sponsale con il mondo tramite il popolo da lui eletto.

            Purtroppo la storia di di questo popolo di Dio è una storia di infedeltà: invece di uva preziosa, vengono prodotte solo piccole “cose immangiabili”. Invece di “rimanere” nella comunione dell’amore, l’uomo si ritira nel suo egosimo, vuole avere se stesso solo per sé, vuole avere Dio per sé, vuole avere il mondo per sé. E così, la vigna viene devastata, il cinghiale del bosco, tutti i nemici vengono, e la vigna diventa un deserto.

            La Volontà di Dio non è quella di un padrone che vuole gli sia pagato l’affitto, che esige la condanna a morte di chi ha ucciso suo Figlio. Non vuole una vigna che maturi grappoli rossi di sangue e amari di lacrime, ma grappoli di amore maturati al sole della sua verità e gonfi della luce del suo amore, che sgorga dal cuore del Figlio. Questo Figlio, morto sulla croce, da “pietra scartata dai costruttori” diventa “pietra angolare”, il fondamento di tutto.

            Che poteva fare di più il Signore? Dio ha amato fino al segno estremo: Dio ha tanto amato il mondo da mandare Suo Figlio, consegnadolo alla morte di croce. Come dice S. Paolo, aulla croce Gesù “mi ha amato e ha dato tutto se stesso per me”. Questa è l’opera mirabile del Signore. La risurrezione di Cristo diventa il fondamento e l’inizio di ogni vita nuova. E’ la rivincita, la vittoria dell’amore.

            Per capire questa logica divina, dobbiamo piangere non tanto sull’infruttuosità di noi tralci staccati dalla vite, ma sul ricordo dell’amore divino che noi tradiamo. Le tenerezze di Dio, le sue dolci cure di divino Innamorato sono la sorgente della nostra vera gioia.

            A lui che disse: “Io sono la vite e voi i tralci che rendo fecondi” diciamo grazie dal più profondo del cuore, e umilmente domandiamo che ci conceda la grazia di rimanere sempre  uniti a luinell’eterno misterodel morire e del risorgere, dell’offerta di sé al
Padre.

            Le Vergine consacrate nel mondo hanno offerto e rinnovano l’offerta di se stesse “come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Mediante questa offerta esse ineriscono a Cristo come tralci alla vite e il loro essere con Cristo è il segreto della loro fecondità spirituale.

            Questo donne consacrate nel mondo sono, insieme con Cristo, accanto ai fratelli e sorelle in umanità. L’umanità è il campo a cui Gesù ci invia, destinate come lui ad “essere nelle cose del Padre”[2].

            Queste donne sono chiamate a testimoniare in modo particolare la ricchezza di frutti che produce l’essere con Gesù e come lui nelle cose del Padre, nella sua volontà, nel suo disegno salvifico di amore. Vivendo e lavorando nel mondo, sono chiamate a vivere e testimoniare l’armonia tra interiorità e vita. La consuetudine di vita con il Signore le porta ad andare oltre quello che sono per aprirsi aella dimensione dell’amore. Le commoventi parole di Gesù: “Rimanete in me… rimanete nel mio amore!” (Gv 15, 7.9.), sono la chiave per costruire una autentica spiritualità della donna consacrata: dall’Amore che ricevono all’amore che donano.

            Con la chiamata alla verginità, il Signore non le toglie a nessuno: più cresce la loro unione con Lui, più crescono le risorse per dono do sè ai fratelli. Risorse di un amore che raggiunge le persone pure attraverso le vie misteriose dello spirito.

            L’appartenza a Dio si fa sempre dono al prossimo.

            La verginità, inoltre, non priva la donna delle sue prerogative di sposa e di madre.

            E’ con cuore di sposa che la donna donatasi a Cristo si rivolge ai fratelli. Se non fosse così sarebbe come tralcio staccato dalla vite. Dice Paolo, “la nostra capacità viene da Dio” (2 Cor 3,5).

            E’ con cuore di madre che la donna consacrata vive la maternità spirituale in molteplici forme.    Nella sua vita consacrata la donna, secondo le capacità sue proprie, esprime una materna “sollecitudine per gli essere umani, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole:‘Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (…), l’avete fatto a me’ (Mt 25,40)”. (San Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 21).

            Una maternità che, come è stato per Maria, viene a noi come dono e dà inizio a qualcosa di nuovo. E’ la risposta di Dio a una gratuità d’amore che egli stesso ha suscitato “per non lasciar mancare a questo mondo un raggio della divina bellezza che illumini il cammino dell’esistenza umana” (Vita Consacrata, 109).

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NOTE

[1] Non deve stupire questo modo di preocedere che riproduce una situazione realistica e frequente ai tempi di Gesù e anche dopo, fino agli anni 70 circa. La zona collinosa della Galilea era costituita in gran parte di latifondi, acquistati da proprietari stranieri, che li davano in affitto a singoli o anche a gruppi organizzati di affittuari. Questi ultimi, come da contratto, dovevano consegnare una determinata parte del raccolto al padrone, che, vivendo lontano, normalmente inviava suoi fiduciari per l’incasso. Succedeva anche che, approfittando dell’assenza del proprietario, i contadini si ribellassero, rifiutando di onorare il contratto; non solo, ma si poteva giungere addirittura ad atti di violenza nei confronti degli amministratori inviati da signori molto potenti, ma anche molto lontani. Nel racconto di Gesù, visti i fallimenti degli inviati precedenti, il padrone arriva a mandare il proprio figlio, suo erede, confidando nella sua autorità; ma i vignaioli agiscono ancora più malvagiamente, uccidendolo. Anche qui c’è uno sfondo veritiero: secondo il diritto del tempo, un podere, alla morte del proprietario senza eredi, passava nelle mani del primo occupante.

[2] Un’espressione che traduce alla lettera il testo greco del noto versetto di Luca: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49).

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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