Tra le novità del postmodernismo ci sono anche alcune guerre che non fanno rumore, ma le cui armi sono letali. Come ad esempio, gli strumenti finanziari quali le svalutazioni competitive delle valute (monete dei Paesi ad esempio euro, dollaro Usa, yen e via dicendo). Si tratta di un conflitto a tutto campo sul terreno delle economie globali dove Cina, Stati Uniti, Europa, Giappone e le nazioni emergenti hanno una posizione da difendere o dalla quale contrattaccare, e in cui gli schieramenti sono tutt’altro che definiti.
Quando è scoppiata questa guerra? Chi l’ha dichiarata? Questi tipi di guerre non giungono mai alla ribalta dei grandi mezzi di comunicazione perchè riguardano solo gli “specialisti”. Le popolazioni intanto pagano il loro tributo senza saperne il motivo, nè le cause.
Quale è la ragione di tutto ciò? In tempi di crisi economica e in un mondo governato dalla finanza, è forte la tentazione delle banche centrali di svalutare la propria valuta per favorire e sostenere l’economia del proprio paese, sia a livello domestico che internazionale. Tecnicamente questa guerra sulle valute si chiama “currency war”, un termine coniato nel 2010 dall’ex presidente del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss Kahn, e dal ministro delle Finanza brasiliano, Guido Mantega.
Il primo affermò che “è molto grave il rischio di conflitti valutari”. Gli fece eco il secondo che dichiarò senza mezzi termini che “la guerra dei tassi è già qui, la si sta combattendo, e l’economia carioca è già stata colpita”. Nel caso attuale la guerra sta colpendo i BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) e l’Europa. Nel caso yuan (Cina) la moneta è al massimo da 20 anni. La moneta di Pechino, venerdì scorso, ha segnato infatti, quotazioni record a 6,0802 contro il dollaro, il massimo dal 1994, da quando cioè la Cina ha modificato radicalmente il suo sistema del tasso di cambio. Stesso discorso vale per l’Europa dove il super-euro contro il dollaro a 1,38 può rallentare la ripresa economica del continente.
Nell’ultimo anno l’euro è stato rivalutato da tutte le principali valute del mondo: in media – calcola la Bce – il rafforzamento è stato del 7% nei confronti delle valute dei principali partner commerciali del Vecchio continente. L’euro ha guadagnato da gennaio l’11,8% contro il real brasiliano, il 17,3% contro la rupia indiana, il 15,6% sulla lira turca. Ed è sui massimi da due anni nei confronti del dollaro. Secondo gli studi accreditati il super-euro potrebbe far diminuire il Pil europeo di circa lo 0,5% nei prossimi 12 mesi.
All’interno dell’Europa le economie viaggiano a velocità diverse e le conseguenze non saranno uguali per tutti. Secondo uno studio di Morgan Stanley di qualche mese fa, mentre le imprese tedesche sarebbero competitive anche con un cambio euro-dollaro fino a 1,53, il grado di di “sofferenza” per le imprese italiane inizierebbe con un euro-dollaro sopra quota 1,19, per la Francia il livello viene segnato a 1,24, per la Spagna a 1,26.
Purtroppo l’area euro è l’unica area economica priva di una vera politica valutaria e subisce l’aggravamento degli equilibri precari che caratterizzano i rapporti fra il modello di crescita tedesco – orientato alle esportazioni dei beni prodotti nei settori a più alto valore aggiunto – e i paesi mediterranei caratterizzati da deficit crescenti nella propria bilancia commerciale.
Se questa prospettiva si dovesse verificare, ciò accelererebbe la pericolosa tendenza che è comunque già presente tra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea. Ovvero che ai Paesi periferici si continuerà a chiedere di ripagare i debiti a mezzo di deflazione salariale o attraverso la presenza rilevante dei capitali privati dei Paesi del Nord negli assetti proprietari dei settori potenzialmente redditizi.
Come i servizi di pubblica utilità, il sistema sanitario, e forse il patrimonio museale e culturale e quella parte del settore manifatturiero presente in Italia che, in mancanza di una politica industriale, va svalorizzandosi per risultare appetibile ai Paesi che hanno accumulato surplus commerciali. Si configurerebbe un rapporto di potere molto prossimo a forme di neocolonialismo.
Come ha sottolineato tra gli altri il prof. Marcello De Cecco (La Repubblica – Affari e Finanza 21 Gennaio 2013): un rapporto di cambio tra euro/dollaro che si stabilizzi attorno a 1,50 rischierebbe di rendere inutili le politiche monetarie espansive della BCE, poiché la debolezza della domanda interna europea non potrebbe compensare la riduzione dell’export prevedibile a seguito di un tasso di cambio di questa entità.
Ma tutto questo corrisponde alla reale situazione dell’economia reale dei varie aree geografiche? Certamente no. Difatti la crescita economica in Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna si va consolidando, mentre quella dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) è in frenata. Certamente si possono avanzare dei dubbi sulla portata della ripresa economica. Per esempio degli 848.000 nuovi posti di lavoro creati negli USA nel corso dell’ultimo anno (tra gennaio e agosto), il 59,4% sono lavori part-time. Nonostante questo tutti gli analisti riconoscono che le aspettative per queste arre siano positive.
In base alle stime della società d’investimento Bridgewater (riportate il 17 Agosto da Federico Rampini su La Repubblica), gli Stati Uniti, il Giappone e le altre economie sviluppate forniranno circa il 60% della crescita globale del 2013.
I capitali gestititi dai grandi fondi di investimento, e le stesse imprese multinazionali, stanno uscendo dopo le speculazioni dai BRICS e stanno tornando soprattutto verso gli Stati Uniti, richiamati dalla duplice azione della politica monetaria espansiva attuata dalla Fed e dell’incertezza generata dagli eventi più diversi nei paesi BRICS. Tra questi non si può escludere nel caso del Brasile il ruolo assunto dalle grandi mobilitazioni durante la Coppa delle Confederazioni, che hanno fatto emergere le contraddizioni del modello di sviluppo che èsi è consolidato dopo gli anni di Lula.
Questo cambiamento è frutto della mutata politica economica (guerra di valute) della Fed che ha incoraggiato il rientro dei capitali dalle economie emergenti verso gli USA facendo crollare il dollaro verso tutte le altre monete, rendendo in prospettiva la ripresa economica USA più forte grazie alle esportazioni.
Tornando ai BRIC, la rupia indiana si è svalutata del 25%, il real brasiliano del 15%, il rublo del 10%. All’ultimo G20 di San Pietroburgo, l’immagine di una guerra valutaria tra questi Paesi e gli Stati Uniti ha iniziato ad assumere la forma di uno scontro diplomatico. La tensione geopolitica fra Washington e Mosca per quanto riguarda la Siria ha anche una faccia monetaria.
Anche il caso indiano è emblematico: dinanzi all’aumento dei rendimenti ottenibili sulle piazze finanziarie statunitensi, alla svalutazione della rupia e alla conseguente fuga di capitali dall’India, il governo ha dovuto reintrodurre dei controlli sui movimenti dei capitali.
La Goldman Sachs ha considerato preoccupante l’alto livello di indebitamento del sistema delle imprese in Cina. Tuttavia la scelta di una stretta creditizia, di fatto promossa dalla Banca Popolare Cinese, rischia di riprodurre nel paese asiatico una dinamica molto simile a quella che ha messo in ginocchio gli Stati Uniti nel 2008. Anche in questa guerra, come in tutte le guerre, ci sono dunque “effetti collaterali” che sono le persone in carne ed ossa che pagheranno in maniera dura le conseguenze.