Il "gioco d'azzardo" e la crisi antropologica dell'Europa

Il fenomeno suscita nei giocatori gli stessi tratti patologici del consumatore di stupefacenti. Per impedirne la diffusione va riconsiderato un modello di sviluppo fondato sull’uomo e sul creato

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Da un decennio a questa parte in Europa il fenomeno del “gioco d’azzardo” si è abbattuto sulla nostra popolazione con dei costi sociali, economici e morali altissimi. Soffermadosi sull’etimologia delle parole “gioco d’azzardo”, subito notiamo la perdita di senso delle stesse che realizzano il vertice del paradosso. Difatti la parola “gioco” significa qualcosa di piacevole, di divertimento, di ludico, mentre con il termine “azzardo” si intende qualcosa che va oltre il normale rischio endogeno ed esogeno.

Se poi si declinano insieme i termini “gioco d’azzardo”, si esalta in maniera patologica la competitività insita nel “gioco”, in direzione di un impulso compulsivo a fare scommesse, nonostante l’individuo affetto sia consapevole delle gravi conseguenze. Tutto questo genera nella persona vittima della ludopatia (malattia da gioco), depressione, stress e ansia, oltre al dissesto patrimoniale e familiare.

Purtroppo, le possibilità di accedere al “gioco d’azzardo” si sono moltiplicate: si va dai “classici” Lotto, Superenalotto, Gratta e Vinci, Bingo e scommesse sportive, ai più recenti videoslotmachine, videolottery, poker e casinò on line. In Italia, una ricerca innovativa (1) sulla ludopatia, dimostra come le famiglie a più basso reddito siano le più esposte: i redditi più bassi tendono a spendere una percentuale del loro profitto più alta rispetto alle famiglie più ricche.

Le famiglie giocatrici più povere spendono circa il 3% del loro reddito in questo tipo di giochi, mentre quelle più ricche spendono meno dell’1%. In termini assoluti la spesa da gioco è passata da 19,5 miliardi di euro nel 2001, a quasi 80 miliardi nel 2011 per giungere a oltre 100 miliardi nel 2012, con una spesa pro capite superiore ai 1400 € all’anno.

Considerando questi numeri possiamo parlare di una “industria del gioco” che con 5.000 aziende e con oltre 120.000 lavoratori, contribuisce al 4% del PIL nazionale. Questi dati non tengono conto delle tante forme di “gioco d’azzardo” gestite dalla criminalità, e dei diversi effetti perversi che alimentano, come il riciclaggio di denaro sporco e l’economia illegale. Nonostante ciò, non poche fonti, alcune anche statali, sottolineano l'”aspetto positivo” del “gioco d’azzardo”, in nome del motto utilitarista ‘più giochi più le casse dello Stato si rimpinguano’.

Al di là dell’eticità di tale affermazioni, i numeri delle entrate erariali, da un lato segnalano un aumento – per lo storico Lotto la quota che finisce all’Erario è del 27% e per il Superenalotto addirittura del 44,7%, per i giochi di nuova generazione essa rasenta lo zero: 3% per le videolottery e 0,6% per i casinò on line – dall’altro, non tengono conto che si tratta di cifre irrisorie rispetto al “giro d’affari”.

Uno Stato però dovrebbe domandarsi se sia opportuno finanziarsi con il “gioco d’azzardo”, una domanda che riguarda il costo etico, sociale, economico, sanitario che lo stesso Stato  è chiamato a “pagare” in maniera diretta o indiretta. In Italia, infatti, ci sono circa 15 milioni di giocatori abituali, e di questi circa 800mila sono patologici e 3 milioni a rischio ludopatia.

Si chiama “gioco d’azzardo” proprio perchè viene “costruito” in modo da suscitare false aspettative, alimentando in determinati soggetti meccanismi psicologici che generano totale dipendenza. Tra i soggetti più esposti ci sono le donne (anziane sole e straniere) e i giovanissimi che, nonostante il divieto per i minori, costituiscono il 6-10% dei frequentatori delle sale da gioco. Questi sono spinti dal desiderio di gratificazioni economiche immediate e da una minore capacità di valutazione del rischio.

Continuando ad analizzare i costi sociali ed economici, vanno considerate anche conseguenze come la distruzione delle famiglie, l’indebitamento per l’aumento delle puntate e delle perdite, la perdita del lavoro e, non per ultimo, come già accennato i costi sanitari. E’ utile ricordare, a tal proposito, che la prevenzione, la cura e la riabilitazione della ludopatia sono entrate recentemente nei LEA (livelli essenziali di assistenza), cioè nell’elenco delle patologie per le quali il Servizio sanitario nazionale è tenuto a rispondere ai cittadini, senza però prevedere alcuno stanziamento finanziario.

Qual è la consapevolezza sociale rispetto al gioco d’azzardo? Gli operatori dell’area delle dipendenze (sostanze stupefacenti e alcool) si sono accorti da tempo che il gioco d’azzardo suscita nei giocatori gli stessi tratti patologici del consumatore di sostanze stupefacenti. Grazie ad una campagna di sensibilizzazione il fenomeno della “ludopatia” per la collettività è uscito dal recinto del vizio per entrare in quello della patologia e questo ha messo in moto anche molte amministrazioni pubbliche che stanno cercando di limitarne la diffusione.

Ma il vero problema ha radici più profonde e riguarda in maniera del tutto evidente la crisi antropologica che l’Europa sta vivendo, il suo nichilismo. Si potrà fare ben poco contro le potenti lobby del “gioco d’azzardo” se non verrà riconsiderato il modello di sviluppo fondato sull’uomo e sul creato. Come cattolici in dialogo con la “buona” cultura laica dovremo chiedere allo Stato, di alimentare l’investimento nei comportamenti virtuosi, sui tanti giovani talenti, sull’impegno, sul lavoro, e ridare al “gioco” la sua sana ragione d’esistere.

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NOTE

(1) Sarti, S. e Triventi, M. (2012). “Il gioco d’azzardo: l’iniquità di una tassa volontaria. La relazione tra posizione socio-economica e propensione al gioco”. Stato e Mercato, 96, 503-533.

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Carmine Tabarro

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