Quale lettura della "Pacem in terris"?

Una riflessione nel bel mezzo del cinquantenario

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Si è svolto nei giorni scorsi a Roma il grande convegno internazionale sulla Pacem in terris organizzato dal Pontificio Consiglio della giustizia e della Pace (2-4 ottobre 2013). Siamo nel pieno delle attività per il cinquantenario della pubblicazione dell’Enciclica (1963-2013) di Giovanni XXIII.

In genere le letture e riletture dell’enciclica in occasione del cinquantenario hanno insistito sulle novità presenti nella Pacem in terris rispetto alle posizioni espresse dalla Chiesa in precedenza. E di novità nell’enciclica ce ne sono tante: dall’attenzione ai popoli che si affacciavano all’indipendenza fino alla questione sociale della donna. E’ giusto mettere in evidenza queste novità perché la Dottrina sociale della Chiesa è l’incontro del Vangelo con i problemi sempre nuovi che la comunità umana deve affrontare. Sappiamo bene che la Dottrina sociale della Chiesa ha elementi di novità e di continuità insieme. Per questo, al fine di renderle onore fino in fondo, bisognerebbe mettere in evidenza anche gli elementi di continuità, accanto a quelli di novità. Questo, invece, non si fa o si fa meno. Accade così che talvolta le riletture delle encicliche siano sbilanciate e che passi l’idea che l’ultima enciclica sia più vera delle precedenti perché dice cose più nuove.

Se rileggiamo con attenzione la Pacem in terris troviamo, accanto alle tante novità, anche alcune dottrine “di sempre”. Sono queste dottrine di sempre a dare luce alle novità. La Dottrina sociale della Chiesa non fa la cronaca dei fatti nuovi, ma li interpreta alla luce della dottrina di sempre.

Giovanni XXIII parla di “ordine sociale” (n. 1), parla di Dio come fondamento dell’ordine sociale in quanto trattasi di un ordine morale (n. 20), dice che l’autorità viene da Dio in quanto chi esercita l’autorità lo fa come partecipazione all’autorità di Dio (nn. 27 e 29), dice che il bene comune deve comprendere il riferimento a Dio e non può essere inteso solo in senso orizzontale (n. 35); dice che il dialogo con i non credenti si fonda sulla legge naturale e con essi non si deve mai giungere a compromessi per quanto riguarda la fede e la morale (n. 82).

Oltre a mettere in evidenza le novità contenute nell’enciclica per quanto riguarda il tema della pace – novità certamente importanti – bisognerebbe anche dire, rileggendo l’enciclica nel cinquantenario, che per Giovanni XXIII l’attività sociale e politica deve rispettare l’ordine sociale creato da Dio, che anche in democrazia l’autorità viene ultimamente da Dio e non dal popolo sovrano, che non c’è bene comune senza il bene della religione cristiana: «Il bene comune va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del loro fine ultraterreno ed eterno» (n. 35). Queste cose però si dicono meno. Dicendole meno si rischia di perdere la continuità di Giovanni XXIII con Pio XII e con la tradizione della Dottrina sociale della Chiesa.

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Stefano Fontana

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