L’anno della fede è un’occasione propizia per «prendere il largo» e andare a fondo della fede. Spesso la dimensione del credere rischia di rimanere atrofizzata rispetto alle altre sfere del vissuto della persona. Si cresce a vari livelli: sociale, culturale, professionale, ma, non di rado, la fede rimane quella dell’infanzia, del primo catechismo, sia a livello di sapere, sia a livello di esperienza. Da qui l’importanza di una riflessione che riporti equilibrio e maturi il sapere e la sapienza della fede, e di conseguenza l’opportunità dell’opera divenuta presto un classico di Bernard Sesboüé, Credere. Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo. Già le molteplici edizioni la dicono lunga sulla sua validità. Parsa alla vigilia del Giubileo del 2000, si è giunti già alla quarta edizione italiana.

L’autore non si propone di offrire tanto dei contenuti per arricchire il bagaglio nominale della fede, quanto un vero e proprio itinerario conscio che «l’importante non è dire tutto, bensì esprimere ciò di cui si parla, secondo un ordine e un movimento che siano significativi per il lettore».

L’approccio di Sesboüé può essere qualificato come mistagogico perché punta a suscitare e a risvegliare la domanda nell’uditore perché «un vangelo che non si rivolgesse all’esperienza umana più profonda non interesserebbe nessuno. Una risposta che non corrisponde a una domanda non è una risposta: è un parlare vano». Per questo l’introduzione all’opera parte dalla domanda di senso, sentita così acutamente nella «era del vuoto» (G. Lipovetsky).

«L’invito» del libro è audace: vuole rivolgersi soprattutto a coloro che sono «abitati da una allergia spontanea al cristianesimo» e a coloro che non si sentono in sintonia con esso. Ma vuole rivolgersi anche ai cristiani che sentono il bisogno di ri-appropriarsi della propria fede.

Il filo conduttore del libro è il simbolo apostolico, il Credo. Quindi l’opera è strutturata in quattro grandi parti. La prima commenta già l’«Io credo»: il soggetto umano e l’atto di fede. Le parti che seguono si articolano ognuna attorno ad una delle tre ipostasi della Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che vive nella Chiesa.

Le suddette tre parti successive, oltre a dedicarsi alla fides quae, la fede come contenuto, aprono, in parallelo agli approfondimenti della fede, questioni di particolare interesse (elenchiamo solo qualche esempio: le sinistre immagini di Dio, i racconti dell’inizio e la scienza, la possibilità che Dio parli all’uomo, la questione del male, la questione del Gesù storico, ecc.). Ma è la parte dedicata alla fides qua, la fede come atto, a prospettare lo stile e la sensibilità maieutica che attraversa tutto il volume.

L’uomo, quel «mostro di inquietudine» (19) è un essere di desiderio, «non soltanto del desiderio di avere di più, ma del desiderio di essere di più. Realizzare i nostri desideri, e approfondire in noi il desiderio fondamentale che ci abita, ci fa crescere nella felicità. È il desiderio di vivere, di conoscere, di amare che ci spinge verso l’avvenire e ci fa porre senza posa nuove domande» (25). Quest’apertura può risultare frustrante se si intendesse l’infinito come l’indefinito, quale «cattivo infinito» insensato perché non porta a nulla. L’infinito vero che nutre la felicità dell’uomo è quello polarizzato. Di questa polarizzazione e di questa felicità propria, ogni uomo è liberamente responsabile.

Il primo atto di credere si configura come opzione per il senso, ovvero, come prendere atto che «il nulla non fonda niente e che quindi questa esperienza del superamento che abita dentro di noi non può essere fondata sul nulla. È questo il mio primo atto di credere» (30).

L’accettazione della possibilità e dell’ipotesi di senso è riconoscere che la nostra fragilità e frammentarietà sono a contatto con un mistero assoluto con il quale però possiamo entrare in contatto. Aprirsi all’infinito è già un aprirsi anonimo a Dio. Prendere sul serio quest’apertura all’infinito è l’incipit dell’esperienza credente.

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Il libro è disponibile sul seguente link:
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