Savar: una tragedia annunciata

La strumentalizzazione anti-occidentale dietro la strage nella fabbrica di abbigliamento in Bangladesh

Share this Entry

Quello che è accaduto a Savar è una storia già vista, che si ripete periodicamente senza alcuna prospettiva di cambiamento. La penultima disgrazia è avvenuta il 16 novembre 2012. In quel caso si trattava della Tazreen Fashion, una fabbrica distrutta da un incendio: nove piani, una sola uscita d’emergenza (sbarrata) che ha impedito la fuga dei lavoratori, 112 operai morti.

Savar, 30 chilometri da Dacca, in Bangladesh, un palazzo di otto piani, dichiarato inagibile e, nonostante questo, migliaia di uomini e donne sono stati costretti dai loro datori di lavoro ad andare comunque a lavorare per meno di 1 dollaro americano al giorno. Il 24 aprile un edificio di otto piani dal nome Rana Plaza è collassato su se stesso. Ad oggi sono state estratte dalle macerie 2.348 persone: almeno 304 sono morte e 2.044 sono rimaste ferite, ma vi sono ancora 372 dispersi. Tra i dispersi vi sono anche tre operaie cristiane, ragazze che avevano studiato alla Novara Technical School, la scuola tecnica fondata a Dinajpur dai missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime). Missionari e volontari cristiani giunti sul luogo – stanno collaborando alle operazioni di salvataggio – continuando a cercarle fra le macerie e negli ospedali che accolgono i feriti.

Il Rana Plaza ospitava cinque fabbriche tessili con circa 3mila addetti – nella stragrande maggioranza ragazze – dove venivano prodotti capi di abbigliamento per grandi marchi di abbigliamento del mondo come l’inglese Primark, la spagnola Mango, Wal-Mart, la tedesca KIK.

Anche la compagnia italiana Benetton è stata accusata di produrre abiti in questo carnaio umano, ma ha emesso un comunicato stampa ufficiale, negando il proprio coinvolgimento.

Il 23 aprile, un giorno prima del crollo, alcuni ispettori avevano dichiarato il palazzo inagibile e pericolante, con profonde crepe ben visibili in tutti i muri. La grande struttura è stata costruita su uno stagno, sommerso alla meglio, in maniera illegale da un giovane imprenditore. Nonostante la dichiarazione di inagibilità i proprietari delle fabbriche hanno costretto il proprio personale a lavorare, minacciandoli con frasi del tipo: “Se non venite non vi pago gli arretrati”; “Se manchi un giorno te ne tolgo tre dalla paga”.

Oltre al dramma umano e alla pazzia della avidità dell’uomo, il crollo del palazzo rischia di essere una miccia accesa dentro una polveriera che rischia di far esplodere la tensione politica e sociale che si registra nel paese. I partiti di opposizione e i partiti islamisti hanno colto l’occasione per strumentalizzare il fatto contro l’occidente, addossando la responsabilità al governo dell’Awami League, di cui si chiedono le dismissioni. Difatti il proprietario del palazzo crollato è un uomo vicino al partito dell’Awami League. Il fronte dell’opposizione al governo include sia il tradizionale “Partito Nazionalista del Bangladesh” (BNP) ma anche tanti partiti fondamentalisti di matrice islamista, composto dall’antico partito “Jamaat-islam” e da nuove formazioni e movimenti come “Hefajat-Islam” (“Protettore dell’Islam”) e “Ahle Sunnat Wal Jamaat”, che chiedono una maggiore islamizzazione del paese.

Share this Entry

Carmine Tabarro

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione