Capita poche volte di potersi godere il centro storico di Roma. La vita caotica, i minuti contati e il quotidiano spesso ci fanno perdere di vista il sapore di passeggiare senza pensieri e perdersi tra le viuzze cittadine. Dopo aver visitato la Basilica di S. Maria Maggiore (di cui abbiamo approfonditamente disquisito nelle settimane passate), si può riscoprire un piccolo angolo nascosto della Roma tardo-imperiale e cristiana, percorrendo via Carlo Alberto per poi svoltare, poco prima di giungere in Piazza Vittorio Emanuele, in una piccola via dedicata a S. Vito. Il lato destro del primo tratto della via è interamente occupato dal uno dei lati lunghi della chiesa dei SS. Vito e Modesto, edificio risalente al IV secolo e noto con il titolo di Crescenziana. La chiesa presenta la singolare caratteristica di possedere due entrate, una nella parte anteriore su via Carlo Alberto e l’altra posteriore, in corrispondenza di un piccolo slargo coincidente con l’antica Porta Esquilina occupata dal grazioso (ma poco noto) arco dell’imperatore Gallieno. L’antica Porta Esquilina è probabilmente uno dei primi passaggi creati lungo il corso delle mura Serviane per il transito di uomini e merci. Questa venne costruita ai tempi del sesto re di Roma Servio Tullio (seconda metà del VI secolo a.C.) in occasione della costruzione dell’antica cinta muraria che circondava i Sette Colli della città (Campidoglio, Quirinale, Viminale, Esquilino, Celio, Palatino ed Aventino). La porta venne distrutta durante il saccheggio dai Galli avvenuto nel 390 a.C. e ricostruita dodici anni dopo allo scopo di proteggere, insieme alle porte Collina, Viminale e Querquetulana (da Querquetulanus, il colle Celio un tempo coperto di boschi di Querce) il tratto di mura che si dislocava su un territorio pianeggiante e quindi maggiormente soggetto alle incursioni dei nemici.
La porta si lega ad una leggenda di origine e datazione imprecisata che diede vita alla cosiddetta festa dei Quinquatri minori. Si narra che la corporazione dei flautisti di chiara origine greca, a dispetto della grande importanza per il ruolo cosi rilevante avuto nella società, cadde in disgrazia a causa di un decreto pubblico che limitava fortemente il numero dei flautisti durante le cerimonie. Per protesta i flautisti si ritirarono presso Tivoli e li vi rimasero fino a quando, riunendosi per una grande festa si ubriacarono a tal punto da fare cosi tanto baccano da indurre il padrone di casa a caricarli su un carretto e a farli uscire dalla sua proprietà. Il carretto, senza alcuna guida, giunse a Roma e attraversò la Porta Esquilina per poi giungere nel Foro. Qui vennero accolti tra le risa generali e per renderli ancor più divertenti vennero truccati e mascherati prima di cacciarli. Da allora, ogni 13 giugno, venne celebrata una festa in onore della dea Minerva i cui partecipanti giravano truccati e mascherati per le strade della città.
La Porta Esquilina fu riedificata e monumentalizzata da Augusto in marmo travertino e con impostazione a tre fornici. Ciò che possiamo ancora vedere è il fornice centrale della porta, in quanto quello laterale di sinistra venne abbattuto intorno la metà del XV secolo per far posto all’ampliamento dell’edificio di culto, mentre quello destro, per far posto ad un edificio.
Presso l’attico di ciò che rimane dell’antica porta augustea è visibile un’iscrizione dedicata dal Prefetto Marco Aurelio Vittore nel 262 d.C. durante l’impero di Gallieno e di sua moglie Cornelia Salonina. La scelta del luogo per onorare l’imperatore fu decisamente appropriata, in quanto l’imperatore, avendo stanziato la propria residenza nelle vicinanze (presso gli antichi horti Liciniani), era costretto ad osservare la dedica del Prefetto Vittore ogni qualvolta faceva ritorno alla sua residenza.
In questo contesto venne edificata nel IV secolo una piccola chiesa come detto dedicata ai SS. Vito e Marciano che venne restaurata durante l’VIII secolo sotto il pontificato di Stefano III. Quando Sisto IV lo fece ricostruire nel 1477, l’edificio doveva essere abbandonato già da parecchi decenni in quanto l’intervento di restauro rappresentò una vera e propria ristrutturazione. Il complesso venne dapprima affidato alle Suore di San Bernardo e successivamente, dopo il passaggio dai Cistercensi, venne affidato ai chierici regolari mariani, epoca in cui venne realizzata la facciata presso via di S. Vito, con l’impostazione tipica delle chiese cistercensi con tetto a doppio spiovente, l’oculo centrale e la semplicità del rivestimento esterno, facendogli assumere l’impronta di una tipica chiesa monastica.
L’interno presenta tre navate con l’altare centrale sormontato da una meravigliosa Madonna col Bambino di Antoniazzo Romano, mentre nella navata destra è visibile una pietra che il detto popolare definisce ‘scellerata’. La tradizione infatti ritiene che su quella pietra vennero martirizzati numerosi cristiani e durante il medioevo, probabilmente in ricordo dell’antico uso, si riteneva che la polvere procurata raschiando la pietra salvasse dal morso dei cani arrabbiati. La pietra in effetti risulta notevolmente erosa, ma l’analisi del manufatto ha in realtà rivelato che si tratta di un cippo funebre di epoca romana, la cui iscrizione attesta sia appartenuto ad Elio Terzio Causidico.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.