Dal grande mistero della Santa Cena scaturisce pienezza di carità e di vita. Il riferimento è certamente al gesto della lavanda dei piedi, che la liturgia propone di compiere simbolicamente in questo giorno. Papa Giovanni Paolo II, commentando la pericope evangelica di Gv 13, coglie il nesso tra la lavanda e la partecipazione alla mensa eucaristica: «Al termine della lavanda dei piedi Gesù ci invita ad imitarlo: Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi (Gv 13,15).
Stabilisce in tal modo un’intima correlazione tra l’Eucaristia, sacramento del suo dono sacrificale, e il comandamento dell’amore, che ci impegna ad accogliere e servire i fratelli. Non si può disgiungere la partecipazione alla mensa del Signore dal dovere di amare il prossimo. Ogni volta che partecipiamo all’Eucaristia, anche noi pronunciamo il nostro “Amen” davanti al Corpo e al Sangue del Signore.
E’ l’amore l’eredità più preziosa che Egli lascia a quanti chiama alla sua sequela. E’ il suo amore, condiviso dai suoi discepoli, che questa sera viene offerto all’intera umanità.» (Giovanni Paolo II, Omelia della Messa in Cena Domini, 28 marzo 2002). Il prefazio, in cui si dice comandò a noi di perpetuare l’offerta in sua memoria, è espressione del rapporto tra Eucarestia e comandamento dell’amore.
Il testo del canto di offertorio, Dov’è carità e amore, lì c’è Dio, accompagna l’offerta dei doni per i poveri, insieme al pane ed al vino che diventeranno cibo e bevanda per la comunità radunata. Dio è presente e si manifesta lì dove la vita quotidiana esprime un amore profondo verso il prossimo. Il binomio pienezza di carità e di vita, cui si accenna nella colletta, è riferimento alla pienezza dell’amore, che si esprime quando permea tutta la vita dei credenti.
In questo senso «Amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata. Il «comandamento» dell’amore diventa possibile solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere «comandato» perché prima è donato» (Benedetto XVI, Deus Caritas est, 14).
Ecco il motivo per cui pane e vino si portano all’altare insieme ai doni per i poveri: l’Eucarestia è il dono che Cristo fa alla sua Chiesa, mentre le chiede di essere imitato nel lavare i piedi e nel donare la vita.
Un’ultima riflessione, sul significato dell’adorazione eucaristica, che conclude questa celebrazione: Le rubriche prevedono che dopo alcuni istanti di adorazione in silenzio tutti genuflettono e tornano in sacrestia… Nessun rito di conclusione, nessuna orazione, solo il silenzio di tutta la Chiesa di fronte al grande mistero dell’Eucarestia. Per comprendere meglio il significato di un tempo prolungato di adorazione, proposto alla comunità ecclesiale, basta leggere l’esortazione di papa Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, al n. 66: «L’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della Celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucarestia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso colui che riceviamo. L’atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto si è fatto nella celebrazione liturgica stessa». Già Agostino infatti aveva detto: «nessuno mangia quella carne senza averla prima adorata» (Esposizioni sui Salmi 98, 9).
Mentre il sole volge alla fine del suo corso e la luce del tramonto cede il posto alla tenebra, i colori del crepuscolo risplendono sulla comunità radunata nel cenacolo antico e nuovo: l’ora è giunta. Radunati intorno all’altare per celebrare la Santa Cena, inebriati dal profumo del balsamo che sale dal Sacro Crisma, contempliamo nell’Eucarestia il nostro Salvatore, che lava i nostri piedi ed offre la sua vita. Non teme il tradimento del nostro peccato, come non esitò di fronte a quello di Giuda, si dona pienamente e totalmente: tutto se stesso per noi, per sempre, perché Egli è l’Amore incondizionato. Nel silenzio della Chiesa, muta di fronte ad un gesto così alto di donazione, nessuna parola. L’attenzione è tutta verso quel tabernacolo in cui è presente l’Amato e la mente torna alle parole di Didaché: «Come questo pane spezzato era disperso sui monti e, raccolto, è divenuto uno, così la tua Chiesa sia raccolta dalle estremità della terra nel tuo regno» (IX, 4).