Le priorità del prossimo governo italiano, sono: ridurre l’elevato debito pubblico, rinegoziare le politiche di austerità richieste dalla Troika (BCE, FMI e Commissione europea), ridurre l’elevato tasso di disoccupazione e proporre politiche crescita economica sostenibile.
In merito all’elevato debito e alle politiche di austerità, sono i due temi che se non approcciati in maniera corretta continueranno a farci precipitare in una spirale recessiva dagli esiti imprevedibili (vedi Grecia).
Pertanto priorità del governo sarà di riaprire un dialogo nuovo con l’Europa, finalizzato a rivedere le modalità delle politiche di austerità che come ha dimostrato anche l’FMI (cfr il documento firmato dagli economisti Daniel Leigh e Oliver Blancherd, dell’FMI, dal titolo: “Moltiplicatori fiscali ed errori nelle previsioni di crescita”), hanno avuto una ripercussione negativa sulla recessione che ha colpito i Paesi denominati PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Solo dopo si potranno affrontare le altre due priorità, occupazione e crescita economica.
Dalle discussioni di questi giorni sembra che ancora non si sia compreso il reale problema italiano: il dibattito è concentrato o sui margini di trattativa che potremmo avere, sull’allentamento dei vincoli del Patto di Stabilità, sull’allungamento dei tempi di rientro dai deficit “eccessivi” ecc.
Idee anche utili, che però dimostrano l’errata diagnosi del male italiano.
Il punto da cui partire: la patologia del debito italiano è tale che la cura imposta al Paese non è sostenibile.
Oppure usando un linguaggio più tecnico: il Paese non è grado di fare i “compiti” che gli sono stati assegnati negli ultimi due anni. Mi riferisco al pareggio di bilancio (in termini strutturali, al netto della componente ciclo economico) e al fiscal compact, sentiero di abbattimento del debito pubblico.
Per rispettare tutti gli impegni presi a livello europeo – dovremmo, nelle ipotesi più rosee – realizzare un avanzo primario (cioè l’eccesso del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, interessi sul debito esclusi) al 5% del Pil e mantenerlo su quel livello per due decenni. Inoltre il futuro governo del Paese dovrebbe tagliare la spesa corrente al di sotto delle entrate fiscali per circa 50 miliardi di euro l’anno.
Voglio ricordare che dal 2008 l’Italia sta vivendo una seconda dura recessione.
È chiaro che una politica delle finanze di questo genere non consentirebbe alcuna riduzione della pressione fiscale né lascerebbe spazio per interventi espansivi, ad esempio nel campo delle politiche industriali per riprendere la strada della crescita e dell’occupazione.
Questi sono i motivi che mi portano ad affermare che qualche limatura del Patto di Stabilità o qualche piccola concessione sui tempi equivarrebbe curare una malattia grave con l’aspirina. Infatti, nelle condizioni attuali, proseguire lungo la linea del pareggio di bilancio e dell’abbattimento rapido del debito significherebbe far precipitare il Paese in circolo vizioso fatto di tagli, riduzioni del Pil, peggioramento delle condizioni della finanza pubblica, nuovi tagli, che ci porterebbe (con conseguenze drammatiche dal punto di vista economico, finanziario, politico e democratico) fuori dell’euro.
I danni sociali sono sotto gli occhi di tutti, il caso più eclatante è quello della Grecia che nel giro di pochi anni ha visto un enorme regresso delle condizioni economiche e sociali.
Altri effetti sulla tenuta democratica li stiamo vedendo oltre che in Grecia, in Spagna, Portogallo, Irlanda, Francia, Ungheria e l’Italia con le ultime elezioni.
Per recuperare il progetto europeo, fondato su valori cristiani, civili e democratici, è necessario riaprire l’agenda europea per una riflessione più profonda sulle regole e sulle loro conseguenze e tra queste sicuramente sugli obiettivi di finanza pubblica.
In tale senso, sarebbe dimostrazione di buon senso, se il Parlamento europeo prendesse coscienza e conoscenza politica dei reali effetti dell’austerity (distruzione di ricchezza, crescita galoppante della disoccupazione e di povertà, aumento delle diseguaglianze ecc.), affinché si riesca a concordare, anche con l’avallo delle autorità monetarie, un freno alle politiche recessive.
Quale via di finanza pubblica dovremmo proporre all’Europa per un Europa più solidale, più attenta alle condizioni strutturali dei singoli Paesi e in fin dei conti dei cittadini europei?
Come Italia, dovremo proporre una stabilizzazione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil sui valori correnti facendolo decrescere in maniera più sostenibile (venti anni sono pochi per uno Stato, soprattutto con un debito al 127% che cammina velocemente verso il 130%, a causa della recessione).
Si tratta di una proposta che assicurerebbe la piena sostenibilità del rientri del nostro debito e che libererebbe nell’immediato importanti risorse rispetto al percorso alternativo dell’austerità, da indirizzare verso la crescita e l’occupazione. Nessuno si illude che sia semplice cambiare politica economica in Europa, non fosse altro perché non tutti i paesi subiscono gli effetti deleteri dell’austerità, anzi alcuni se ne avvantaggiano nel breve, non capendo o facendo finta di non comprendere che la posta in gioco è la democrazia e la pace. Ma rimane il fatto e con i fatti non si discute, che dobbiamo muoverci in questa direzione prima che sia troppo tardi.