La parabola del figliuol prodigo (Luca,15, 1-3, 11-32) di questa IV domenica di Quaresima (10 marzo 2013) è una delle più belle e commoventi che si leggono nel Vangelo. Gesù parlava in parabole, cioè raccontava fatti di vita quotidiana che erano comprensibili ai suoi ascoltatori. Non faceva teorie o teologie, raccontava fatti, presentava persone che incarnavano e rappresentavano ai suoi seguaci la verità che il Signore voleva annunziare.
Il dramma familiare di un padre il cui figlio prende una via sbagliata è comune anche ai nostri tempi. Quante volte sentiamo dire da genitori credenti: “Abbiamo educato bene il nostro figlio, ma poi è andato fuori strada e ci fa soffrire”. Il padre della parabola è esemplare. Anche i genitori d’oggi dovrebbero essere come lui in situazioni simili: amare ancor più il figlio ribelle, dargli il buon esempio di un amore gratuito, pregare per lui, attendere con fiducia e pazienza il suo ritorno.
Ma Gesù voleva soprattutto rivelarci il volto del Padre che sta nei cieli. Il Creatore di tutti gli uomini è un Padre pieno di bontà e di misericordia, che ci vuol bene sempre, anche quando noi non comprendiamo il suo amore. In questa parabola vediamo uno sceneggiato simbolico del mondo “post-cristiano” in cui viviamo. I popoli cristiani sono il figliuol prodigo lontano dal Padre e si ritrovano meno uomini, sono diventati “guardiani dei porci”, mangiano le ghiande dei porci.
Gli uomini secolarizzati del nostro tempo si rendono conto che lontano da Dio non c’è vero umanesimo, la vita non ha senso. Non parlo di casi personali, mi riferisco alla cultura che tutti respiriamo: molti hanno perso il senso della vita, non sanno perché vivono. C’è in giro molto pessimismo, disperazione, aumentano i suicidi, tanti non vorrebbero più vivere perchè la vita lontano dal Padre non ha senso. Due riflessioni:
1) La prima domanda che mi faccio oggi è questa: che immagine io mi sono formato di Dio? Vivo la presenza di Dio in ogni momento della mia vita? Il card. Carlo M. Martini insisteva sulla “preghiera continua”, cioè vivere con amore alla presenza di Dio, pur nelle molteplici occupazioni e preoccupazioni della giornata. Seminare i nostri passi con giaculatorie, rosari, pensieri amorosi a Dio che ci vuole bene e ci è sempre vicino.
La nostra vita spirituale dipende in buona parte da come pensiamo e sentiamo Dio presente nella nostra vita. Tutti i popoli credono in Dio Creatore e Giudice, lo adorano, lo pregano: non esistono popoli atei! Ma quelli che non hanno ricevuto la rivelazione di Cristo non sanno chi è Dio, come agisce, cosa pensa, cosa vuole da noi; lo immaginano come un personaggio misterioso, lontano dall’uomo e dalle vicende umane, che punisce i crimini degli uomini. Pensano che la vita è sotto il dominio di spiriti buoni e cattivi, che vanno propiziati con atti di magia, sortilegi, superstizioni.
Nel mondo attuale rischiamo anche noi credenti di finire nel gorgo di una visione pagana di Dio. Ebbene, oggi Gesù ci presenta il Padre nostro che sta nei Cieli, quello che preghiamo ogni giorno: è un Padre, una mamma che amano il figlio, lo guidano, lo perdonano, lo proteggono.
Nel 1974 ero nel Vietnam del sud durante la guerra. Scendevo dai monti verso la pianura, da Pleiku a Qui Nhon, su un camion militare, assieme a numerosi vietnamiti. Una giornata intera di viaggio, su strade dissestate, in un paese in guerra: abbiamo attraversato zone dove si combatteva, villaggi bruciati e bombardati, mitragliamenti, profughi che scappavano a piedi e con ogni mezzo. Tutto questo è un’immagine del mondo in cui viviamo anche oggi!
Io e gli altri profughi eravamo seduti su delle panche nel cassone scoperto del camion. Di fronte a me una giovane mamma vietnamita teneva in braccio il suo bambino che aveva pochi mesi. Lo cullava, lo allattava, lo coccolava. Ad un certo punto, passando vicino ad un villaggio in fiamme dove molti gridavano il bambino, sentendo quel trambusto, si è messo a piangere, avvertiva anche lui il pericolo. La mamma ha steso su di lui un lembo del suo scialle ed ha continuato a cullarlo e gli cantava una dolce nenia. Dopo un po’ il bambino dormiva placidamente. Attorno a noi crollava il mondo e lui dormiva: non sapeva niente, non aveva paura di nulla, si fidava dell’amore di sua madre.
Ecco, quando penso a Dio mi vengono in mente quella dolce mammina vietnamita e il suo bambino. Se noi viviamo con questa immagine di Dio e nella nostra piccola vita, non possiamo più essere pessimisti, scontenti, scoraggiati, timorosi di chissà cosa. Qualunque cosa mi capiti, io sono sempre nelle braccia del Padre!
2) Noi cristiani, e specialmente noi preti e suore, rappresentiamo Dio e Cristo agli occhi degli uomini. Chi è riconosciuto come cristiano deve sentire la responsabilità di essere, agli occhi di chi ci conosce e osserva, un testimone a tempo pieno. Non per assumere volutamente atteggiamenti significativi e dire parole opportune. Oggi conta soprattutto essere autentici, non falsi. Anzi, i devoti manierati danno fastidio, sono una contro-testimonianza. Il nostro tempo ci invita ad un esame di coscienza: se io sono duro, scontroso, egoista, avaro, freddo, chiuso ai problemi degli altri, non sono come il Padre della parabola di Gesù: non do una bella immagine della fede e della vita cristiana.
Molti anni fa, nel 1966, sono andato la prima volta in Amazzonia e nella capitale dell’Amazzonia brasiliana, Manaus, ho visitato il lebbrosario di Aleixo. Mi accompagnava il mio confratello padre Mario Giudici, che era stato cappellano del lebbrosario e tornava dall’ Italia dopo un’assenza di quattro anni. Era un uomo di grande umanità, dopo un po’ che stavi con lui pensavi: “Chissà com’è buono Dio, se ha fatto un uomo così buono come padre Mario!”.
I lebbrosi gli si avvicinavano e volevano salutarlo, abbracciarlo, parlargli. Io me ne stavo un po’ defilato ed entrando in un reparto di donne, vedo una lebbrosa con due moncherini al posto delle mani. Appena sente da lontano la voce di padre Mario, la riconosce, si mette a gridare un saluto e le viene istintivo di battere i moncherini perchè non aveva più le mani.
Piangeva e si è calmata solo quando sono andato a prendere Mario e l’ho portato da lei. Mi sono commosso anch’io nel vedere che per quella povera lebbrosa quel prete era forse l’unico che rappresentava in concreto la bontà di Dio. Tutti l’avevano abbandonata, i parenti non venivano a trovarla, ma quel prete era ancora lì a darle un abbraccio e la benedizione di Dio. Mi sono chiesto: chissà se io cristiano, io prete, a tutti quelli che mi conoscono da vicino, do questa immagine forte e amorosa di Dio, che è un Padre pieno di amore e non ci abbandona mai?