di Carlo Climati
ROMA, venerdì, 30 novembre 2012 (ZENIT.org) – Uno dei mezzi più usati dai regimi dittatoriali per controllare e indottrinare le masse è sempre stato quello di distruggere le parole, svuotandole del loro più autentico significato.
Conosciamo già, con tristezza, l’orribile linguaggio che in questi ultimi anni ha cercato di mascherare l’orrore della soppressione del bambino del grembo materno.
Il Concilio Vaticano II definisce l’aborto: un “delitto abominevole”. Eppure, in questi anni, si è preferito utilizzare un termine neutro: “interruzione volontaria di gravidanza”.
Dovremmo chiederci, con sincerità: che cosa si interrompe con l’aborto? Una gravidanza o una vita umana? Sicuramente una vita umana.
Una maternità interrotta ferisce gravemente i cuori delle persone coinvolte. La banalità del male genera altrettante vittime.
Gandhi diceva: “Mi sembra chiaro come la luce del giorno che l’aborto è un crimine”. Ma si preferisce nascondere questa drammatica realtà con un linguaggio fumoso e fuorviante.
Del resto, il bambino non ancora nato non è neppure considerato una vita umana. Per definirlo viene spesso utilizzata un’altra parola ipocrita: “prodotto del concepimento”.
La fantasia dei distruttori delle parole, a quanto pare, non conosce il senso del ridicolo.
Tra i modi più efficaci per cogliere i mutamenti del mondo che ci circonda c’è sicuramente quello di analizzare le parole che vengono usate nella vita quotidiana. Ogni linguaggio, infatti, rappresenta lo specchio perfetto del proprio tempo. Riesce a riprodurre, fedelmente, gli aspetti positivi o negativi dell’epoca a cui appartiene.
Molti vocaboli e modi di dire, entrati nell’uso comune dei giovani, rappresentano il segnale d’allarme di un’epoca in cui sembra trionfare la non-cultura del non-impegno.
Certe parole sono il frutto del non-pensiero imperante, che vorrebbe cancellare il concetto di “sforzo” dalla sfera dei rapporti con gli altri.
Oggi il campo più devastato dall’imperante non-cultura del non-impegno è sicuramente quello dei rapporti umani. Lo si comprende dal modo in cui sono cambiate, in peggio, le parole che riguardano la sfera affettiva.
I sentimenti sembrano bruciarsi rapidamente. Tante canzoni, trasmissioni televisive, riviste per ragazzi parlano d’amore. Ma di quale amore si tratta? Che tipo di valore viene attribuito a questo termine? Troppo spesso, purtroppo, tutto si riduce ad una pura e banale manifestazione del proprio egoismo.
Amare qualcuno significa, sicuramente, impegnarsi. Significa anche, e soprattutto, saper vedere l’altro come un essere umano. Non come un oggetto da usare, gettandolo via quando non serve più.
Il desiderio d’amare e di essere amati nasce, troppo spesso, per colmare un vuoto o per soddisfare un proprio bisogno. Ma poi, quando è necessario fare sul serio, impegnarsi, sacrificarsi, cominciano i problemi. C’è una tendenza a fuggire e a non assumersi le proprie responsabilità.
Per accorgersene, basta riflettere su un modo di dire che viene utilizzato per definire i legami amorosi. Due persone che si amano, secondo il linguaggio comune, vivono “una storia”.
Questa parola, di per sé, rappresenta già un inganno. La “storia”, infatti, ha sempre un inizio ed una fine. Quindi, lascia intravedere l’idea di un rapporto incerto, pessimista, non duraturo, limitato ad un periodo di tempo. E’ qualcosa che, prima o poi, terminerà.
Un altro grave problema è quello della mancanza di progettualità. La non-cultura del non-impegno sta contribuendo a far scomparire il termine “fidanzato”, che viene sostituito dal più generico “ragazzo”.
Ormai non si dice quasi più che due persone sono “fidanzate”. Si dice, banalmente, che “stanno insieme”. E quindi, ci si limita a prendere atto di una situazione ovvia.
E’ vero che due persone che si amano “stanno insieme”. Ma questa espressione nasconde un inganno. Al contrario del “fidanzamento”, comunica un senso di immobilità, di stasi. Esclude totalmente la prospettiva di uno sguardo verso il futuro.
La massima espressione del non-impegno è rappresentata da una parola inglese utilizzata sempre più spesso in televisione e nelle riviste per ragazzi: il “partner”. E’ una parola fredda, anonima, insignificante, che riassume alla perfezione il nulla più assoluto e la mancanza di progettualità di certi rapporti di oggi.
Che cosa si può fare per cambiare questa tendenza? Un primo passo potrebbe essere proprio quello di educare i giovani a ritrovare il più autentico significato delle parole, mettendo da parte i termini fumosi ed equivoci.
Basta con i “partner”! Basta con le “storie”!, Basta con le “interruzioni di gravidanza” e con i “prodotti del concepimento”! I distruttori delle parole non vinceranno!
Al piatto conformismo di certi linguaggi ingannevoli bisogna contrapporre la gioia della speranza, della scommessa sull’altro, dell’impegno quotidiano per un amore teso verso le vette dell’infinito.