di Claudio Cianfaglioni
ROMA, martedì, 20 novembre 2012 (ZENIT.org) – Rispondere alla domanda: che cos’è la poesia?, è complesso almeno quanto rispondere a: che cos’è l’essere?. Se poi le due questioni si sovrappongono, la complessità della riflessione evidentemente cresce. È quanto si propone di fare, fornendo invero un convincente tentativo di risposta, Giovanni Casoli col suo ultimo lavoro Sul fondamento poetico del mondo, per i tipi de L’ora d’oro (Poschiavo 2010).
Già dal titolo emerge questa ardita sovrapposizione tra essere e poesia. Sul fondamento, infatti, ricorda i titoli degli antichi trattati filosofici sull’ontologia, fino alle più recenti riflessioni metafisiche: si pensi, ad esempio, al Peri Archôn di Origene o a Sul principio di Martin Heidegger.
Il fondamento sul quale si e ci intrattiene Casoli è quello poetico, dove quel “poetico” è da intendersi ad un tempo qualificazione e contenuto. E lo fa procedendo non tanto per proposizioni filosofiche – «a me non interessa vivere né dentro definizioni né dentro semplificazioni» ci avverte fin dalle prime pagine – né stilistiche, perché «la poesia non è il “poetico”, l’ornamentale, il decorativo»; bensì attraverso una riflessione genuinamente esperienziale, che si muove «nel complesso golfo dell’esistenza». A cominciare dalla sua di esperienza, che qua e là fa capolino dalle pagine con preziosi “cammei” autobiografici, e da quella dei suoi inseparabili compagni di viaggio di sempre: Hölderlin, Eliot, Mann, Pasternak, Leopardi, ma anche la sapienza biblica e quella classica, fino al’immancabile Dante.
L’ansia della definizione sistematica è così subito messa a tacere: «La poesia è in-definibile proprio nel senso che è misericordiosamente vietato definirla, pena l’uscirne e l’abbandonarla mentre si crede di toccarla». E altrove: «Se la si afferra, è ancora poesia?». Come nella migliore tradizione apofatica del discorso su Dio, anche per la poesia si procede per via negationis: «il linguaggio può rischiarsi a balbettare solo ciò che essa non è».
Non si può definire, quindi, ma si può abitare la poesia o meglio, nella poesia: «poeticamente abita l’uomo su questa terra» fa ripetere più volte l’autore a Hölderlin. E gli fa eco una rilettura originale di Orazio: «Hic manebimus poetice». Nell’enigmaticità del mistero che mi abita e che costituisce la mia e l’altrui esistenza, fino a sottendere a tutto il mondo, Casoli intravvede solo nella poesia la parte percepibile, seppur oscuramente, di quest’intimità che lega tutte le cose. Solo poeticamente, insomma, si può sentire e abitare questo mondo che è costitutivamente poetico, «che si regge, stupendamente e inevitabilmente, tragicamente e magnificamente, sulla poesia, come la Terra indù su una tartaruga».
Così la poesia regna, ma non possiede né deve possedere. Casoli è cosciente sia della vocazione solitaria, dolorosa e inafferrabile del vero poeta, sia che carmina non dant panem. Sì, perché «il compito della poesia è il nulla», è il tutto detto in un nulla. Non il nulla disperato del vuoto nichilismo, ma quello “pieno” della kénosi, del nada che il nostro autore prende in prestito da Giovanni della Croce.
Su queste premesse – che definire solo teoriche sarebbe improprio, in quanto sostanziate,come s’è detto, dalla prassi esistenziale – contenute nella prima sezione eponima del libro (Sul fondamento poetico del mondo), si costruisce il resto dell’opera, declinato in altre due parti: la seconda (Sulla poesia. Lettere), costituita da quattordici lettere parenetiche destinate – com’è in tanta tradizione epistolare – a un ideale giovane interlocutore da introdurre nella «parola-cosa, dabar, factum» della poesia; e la terza, contenente cinquanta poesie (Cinquanta progressi sul fondamento).
Il ritmo ternario del libro, lungi dal disperdere il lettore nella frammentarietà, rende l’opera un originale e pluriforme trittico unitario, tenuto insieme da cerniere convincenti e raffinate, proprio come gli antichi trittici gotici che, pur disposti autonomamente su tre tavole, collaborano a narrare pittoricamente lo stesso mistero.
È un’opera performativa quella che ci regala Casoli: davvero fa quello che dice! Procede, cioè, dal parlare sulla poesia e per la poesia, fino a far parlare la poesia. Il lettore, infatti, muove i passi da una prosa che mai è prosaica – e non solo per la presenza, già all’interno della prima sezione, di molti versi – bensì poetico-descrittiva che poi, nella seconda sezione, si fa didascalia, maieutica. Fino a svuotarsi totalmente nella terza sessione, quella direttamente poetica, in una vera e propria kénosi della parola, della frase, della sintassi. Ciò fa dell’intero percorso non un’ascesa verticistica, piramidale, bensì un procedere a spirale, come sui tornanti dei sentieri d’alta montagna, dove di tanto in tanto riaffiora quel particolare, quell’affaccio sulla vallata che si perde fino all’orizzonte, quel già visto mai ripetitivo. Sono riprese feconde (Hölderlin che torna come un responsorio salmico, la poesia come nulla, il poetice come modalità dell’esistere), che danno al lettore la sensazione di essere accompagnato per mano, passo dopo passo, su un terreno non accidentato, ma ben solido, fondato, per quanto sempre nuovo e imprevedibile.
Il tutto è come un passare dal dover essere all’atto d’essere, dalle istruzioni per l’uso al funzionamento, dalle rubriche esplicative al rito stesso, nel quale il poeta è al contempo sacerdote e agnello sacrificale, per dirla con Fortini.
Sopra questo trittico fa da cimasa – per restare nella metafora artistica – un congedo sotto forma di Appello per la poesia: senza il fondamento che è la poesia «non c’è salvezza per gli uomini».
Chi ha avuto il dono di conoscere personalmente, oltre che di leggere, Casoli, sa che l’unico fondamento possibile è quello che si incarna nel Cristo, il quale non si impone, ma si espone, non possiede eppure regna, proprio come la poesia. L’identificazione cristologica non è poi così audace né velata, ma risulta a un tratto esplicita, quando leggiamo: «La poesia ne esce, come sempre, indenne, perché il suo nada sopravvive ad ogni lapidazione (“passando tra di essi se ne andò”), come Gesù». Il protagonista della vicenda evangelica – tanto frequentata dal nostro autore – nell’acme della sua parabola terrena, prosciuga le sue parole, fin quasi a strozzarle in gola nel grido dell’abbandono, della kénosi, nella più profonda delle sue ferite: «la poesia non è un’esaltazione, è un ferita profonda». Ed è lì che non essendo è, ed in questa nuova modalità d’essere attira, quale polo magnetico, tutti a sé. È lì, cioè, che si rivela, «nella stanchezza del morente», come fondamento poetico del tutto, proprio col suo corpo enfracedato – ci ricorda Casoli con Jacopone. In lui e con lui anche noi possiamo coscientemente dire: Hic manebimus poetice. Anche, o forse proprio, nelle ferite e nelle piaghe del nostro nulla.