L’arte nella contemporaneità ha gradualmente assunto la prospettiva dell’inquietudine come modalità d’indagine del reale. Un certo cinismo, mescolato ad una disincantata visione post-idealista, si è impossessato dei pigmenti degli artisti, che non hanno più la forza di affermare qualcosa. La vera cifra della post-modernità è la negazione, figlia ormai matura del dubbio che ha mosso gli animi della modernità. Alla radice delle varie riflessioni che pongono le varie poetiche di molte delle più affermate correnti artistiche odierne c’è una domanda, la domanda che assilla tutta l’umanità fin dal più profondo delle sue radici liberali, che esprime nei confronti di ogni realtà ontologica, un dubbio che la mette in questione.
Per secoli si è affermato che questo dubbio è positivo, che ha in sé tutta la potenza dinamica del conoscere e che solo dal dubbio si può giungere ad un sapere superiore. Ma nell’arte la dinamica è diversa, ogni realizzazione pittorica o scultorea non è di per se una domanda ma si pone come una affermazione, pur mantenendo la forma dubitativa che l’ha originata, acquista una dimensione propositiva, affermativa. E’ accaduto però che, paradossalmente, tante affermazioni di opere centrate sul dubbio, altro non facciano che indurre al dubbio –unica affermazione accettata- piuttosto che spronare a superarlo con una affermazione.
Per esempio, il dubbio che Gauguin pone in un suo autoritratto, incapace di scegliere tra le divinità polinesiane e il Crocifisso, non appare scioglibile e quindi di fatto si presenta come una negazione dell’appartenenza cristiana, come l’affermazione di un dubbio che non si limita a dubitare ma afferma la negazione. Da qui molti altri artisti moderni hanno mostrato la loro dubbiosa adesione ad un cliché compositivo, che di fatto nega ciò che apparentemente sembra solo interrogare. Pian piano si è fatta largo una concezione dell’opera d’arte come luogo del filosofico dubbio, con premesse inesatte o insufficienti e quindi incapace di portare a compimento il processo del ragionamento. Tutto rimane sospeso, oppure si strugge in un romantico arrovellamento inautentico e banalmente retorico, tanto caro all’adolescenza. Un certo giovanilismo adolescenziale, segno di una irrequietezza a-morale, si è impadronito delle poetiche artistiche ed è divenuto incapace di affermazioni compiute, proprie dell’età adulta.
Sembra quasi che un certo numero di artisti sia eternamente sospeso tra i desideri fanciulleschi di una libertà impunita e le domande fatte non per aver risposta, ma per interrogare in maniera irriverente senza spostar mai lo sguardo sulla realtà delle cose, ma tenerlo fisso sulle ipotesi conoscitive.
Il sogno, l’oscurità, l’errore, l’illusione sono alcuni dei temi affrontati già tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, prolungandosi poi in vere e proprie correnti e movimenti per giungere poi alle più accattivanti idee di progresso delle avanguardie, concepite come avamposti ma traghettanti cose vecchie e sorpassate dalla storia come la superstizione e gli idoli. Di fatto da Goya a Max Ernst, da Salvator Rosa a Joseph Beuys un certo esoterismo tribale si fa largo prepotentemente nelle opere d’arte fino ad aderire più o meno consapevolmente a culti neo-pagani. Del resto lo stesso Beuys aderisce esplicitamente all’antroposofia di Rudolf Steiner entrando definitivamente nel mondo dell’occulto.
Su di un altro fronte, ma non troppo lontano per intenti e per finalità, incontriamo Allan Kaprow che nel 1959 a New York propone il primo happening: sorta di messa in scena teatrale formata da diversi elementi alogici mescolati in un impasto anch’esso privo di alcuna sequenza logica, con lo scopo di spostare l’attenzione dall’oggetto artistico all’azione performante, ma rigorosamente nonsense. In ultimo poi si possono citare nel medesimo spirito di indagine che non conduce da nessuna parte ma che rotea attorno a se stessa, imprigionando più che liberando la conoscenza, le esperienze artistiche tautologiche di René Magritte, di Francis Picabia e di Josef Kosuth che con le sue catene di segni intersemiotici di fatto ci dice ciò che la sintassi e la grammatica già conoscono e ciò che la pittura sa di se stessa da sempre.
Sembra, quindi, che all’interno di un determinato procedimento culturale l’artista per essere veramente tale, e per essere considerato tale dai critici e dal pubblico, debba rimuginare più che pensare, debba teoreticamente mettere in dubbio più che spingersi realmente oltre i confini dei saperi, rimanendo di fatto invischiato in piccoli giochi di parole che non si spostano dalla tautologia e dal nonsense. Il fatto che tra la pipa reale e quella dipinta ci sia una differenza ontologica non è necessario che ce lo dica Magritte con un suo famosissimo dipinto, tutto ciò lo sappiamo da sempre, ma il fatto che questo ci impedisca di dipingere, questa è la strana conclusione a cui giunge la modernità prima e la post-modernità poi, con esiti devastanti per l’arte della pittura, e per l’arte sacra in particolare.
Infatti molti, affascinati da queste tautologiche affermazioni teoretiche, hanno pensato che l’arte della pittura non potesse più coesistere con la modernità; che la pittura fosse superata e arcaica, teoreticamente insufficiente a battersi con affinati strumenti semiotici messi in campo dal pensiero laico e che la povera pittura non superasse il confronto con il pensiero debole, minimalista o nichilista, comunque relativista della contemporaneità. Il fatto però è che la teoria della pittura comprenda fin da subito questi elementi come giochi linguistici eccentrici e abbia la forza morale di relegarli in un piccolo angolo innocuo come divertimenti e scherzi. Per secoli gli artisti e i loro committenti si sono divertiti con giochi illusionistici e scherzi linguistici raffinatissimi, al confronto dei quali i nostri contemporanei Kosuth o Magritte risultano perfino infantili.
L’arroganza della modernità, che ha poi finito col cadere nella devastazione post-moderna della “fine dell’arte”, ha di fatto avuto un solo risultato: quello di impedire alla pittura di continuare a dire la realtà del mondo e del creato. Si è costretto gli artisti a rinunciare al realismo filosofico per far loro intraprendere forzosamente -seguendo mode e avanguardie- percorsi irreali, illogici, surreali, magici ed occulti, impedendo loro un approccio conoscitivo e costruttivo dell’arte.
Il dubbio, dunque, non è stato il movente dal quale partire per giungere alla realtà delle cose, ma al contrario l’esito al quale approdare: un “perché” che è seguito da altri infiniti perché in un circolo vizioso privo di uscita, capace solo di far rinunciare a dire il vero.
Ma per l’arte sacra c’è bisogno di ben altro, il primo perché, che la precede nel moto spirituale dell’artista che si muove verso l’opera da realizzare, è fatto dell’adesione piena alla fede in Cristo. Lo statuto dell’arte sacra è di fatto il Simbolo di fede, che ogni cristiano recita la domenica in Chiesa insieme a tutta la comunità. Alla domanda profonda “perché l’arte sacra?” non si risponde con i dubbi delle teorie riduzioniste e tautologiche, altrimenti non è possibile affermare tutte le sfumature delle realtà di fede rivelate alla Chiesa da Nostro Signore Gesù Cristo.
* Rodolfo Papa è docente di Storia delle Teorie estetiche presso la Pontificia Università Urbaniana