di Enrico dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, lunedì 14 maggio 2012 (ZENIT.org).- Saluto cordialmente tutti i presenti, ma in modo speciale i benemeriti Responsabili della “Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio”.

A nome dell’intera Università Lateranense, desidero esprimere ancora una volta la riconoscenza e il sincero apprezzamento per le iniziative che la “Cattedra” continua ad assumere, con metodo e contenuti degni di ogni lode.

Ho seguito da ultimo, con grande soddisfazione, il ciclo di lezioni dedicato alle sei “strutture dell’essere cristiano” delineate da Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, a partire dalla sua indimenticabile Introduzione al cristianesimo.

1. L’evento che questa sera inauguriamo si apre con un interrogativo. In realtà esso coglie uno dei problemi principali del Cantico dei Cantici nella storia della sua interpretazione: vi si tratta di una poesia erotica, o di una metafora religiosa?

In effetti, il Cantico è l’unico dei cinque meghillot o rotoli (gli altri quattro sono Rut, Qohelet, Lamentazioni ed Ester), che nella Scrittura ebraica e cristiana non accenna alle relazioni tra il Signore e Israele, né anticipa quelle tra Cristo e la Chiesa nella Scrittura cristiana.

Nondimeno questo Cantico – che è il più bello di tutti e cinque, composto in ambiente palestinese per descrivere l’amore tra il re e la Sunnamita – è stato inserito sia nel canone ebraico sia in quello cristiano delle Scritture Sacre, perché è stato sempre interpretato, allo stesso tempo, come espressione di un amore fisico e di un amore spirituale.

Per la tradizione biblica, sulla scia del Cantico si pongono lo stupendo Libro di Osea, il profeta chiamato dal Signore a prendere in moglie una donna di prostituzione, per veicolare l’amore fedele del Signore, nonostante quello infedele del suo popolo (“La condurrò nel deserto, e parlerò al suo cuore…”: 2,16); e la visione di Ezechiele, che libera Gerusalemme dalle sue impurità, per renderla sua sposa nella fedeltà (cfr. Ezechiele 16).

Nella tradizione cristiana il Cantico sublime rinvia, a seconda dei casi, all’amore tra Cristo e la Chiesa, tra Maria e il Signore, tra il Signore e l’anima credente.

2. Origene, nel III secolo, si è dedicato a più riprese al Cantico dei cantici. Ma del testo originale, in lingua greca, del suo commento sono pervenuti solo alcuni frammenti. Ci è giunta invece la traduzione latina – benché parziale e approssimativa – di Rufino.

Anche delle due omelie di Origene sul Cantico possediamo scarsi frammenti, ma qui ci soccorre la traduzione latina di Girolamo, che (a differenza di Rufino) traduce – a suo stesso dire – fideliter.

Nel complesso, l’interpretazione origeniana del Cantico è cristologica e ecclesiologica insieme: “Bella è la Chiesa, quando è vicina a Cristo e lo imita”, leggiamo per esempio nella seconda omelia. “La Sposa, finché sarà rimasta lontana dallo sposo, non è bella; allora diventa bella, quando si unisce alla Parola di Dio” (Seconda omelia sul Cantico 4).

Da parte sua, Girolamo attesta: “Se Origene ha superato tutti nell’interpretazione di altri libri della Scrittura, sul Cantico dei Cantici egli ha superato se stesso”.

Fra l’altro, nella Prima omelia origeniana incontriamo uno dei rari passaggi nei quali un autore tenta di descrivere la propria esperienza mistica. E’ là, dove Origene confessa: “Molte volte – Dio me ne è testimone – ho sentito che lo Sposo si accostava a me in massimo grado; dopo egli se ne andava all’improvviso, e io non potei trovare quello che cercavo. Nuovamente mi prende il desiderio della sua venuta, e talvolta egli torna, e quando mi è apparso, quando lo tengo tra le mani, ecco che ancora mi sfugge, e una volta che è svanito mi metto ancora a cercarlo...” (7).

3. Seguono i commenti di Gregorio di Nissa, di Filone di Carpasia e di Teodoro di Cirro per la tradizione orientale, tra il IV e il V secolo. Per la tradizione occidentale, il Cantico occupa un ruolo privilegiato nelle omelie di sant’Ambrogio di Milano, che definisce “bella la Chiesa nelle anime”. Guglielmo di Saint-Thierry ne comporrà gli Excerpta ex libri beati Ambrosii super Cantica Canticorum.

4. Con le omelie di Papa Gregorio Magno il Cantico inizia ad essere commentato nella tradizione monastica. Così in epoca medievale proseguono i commenti di Beda il Venerabile (VIII sec.), di Pascasio Radberto (IX sec.), di Ruperto di Deutz, di Bernardo di Clairvaux, di Guglielmo di Saint-Thierry, di Goffredo di Auxerre e di Onorio di Autun. Onorio commenta il cantico nel suo Sigillum Beatae Mariae, con cui s’impone l’interpretazione mariana della Sposa.

5. Fra questi autori, che ho appena citato, mi fermo solo un momento su Bernardo di Clairvaux, all’estrema conclusione, ormai, dell’età patristica in Occidente.

Nel suo commento al Cantico dei Cantici l'abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. “Arido è ogni cibo dell'anima, se non è condito con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù. Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù. Gesù, miele nella bocca, canto nell'orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilus)” (Sermone sul Cantico dei Cantici 15,6).

Come si giustifica questo inno appassionato del santo abate? La verità è che Bernardo resta affascinato da una profonda certezza di fede. Grazie al sacrificio di Cristo, egli si sente raggiunto dalla santità di Dio: “Quello che io non posso ottenere da me stesso”, cioè la santità, scrive in un altro Sermone sul Cantico dei Cantici, “io me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore” (Sermone sul Cantico dei Cantici 61,4-5).

6. L’ultimo grande filone sul Cantico è quello della mistica spagnola, a cui si riconducono santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce. Per loro, la vita contemplativa è relazione sponsale tra Cristo e l’anima credente.

Così la grande Teresa commenta il Cantico dei Cantici 1,4 nel suo Castello interiore: “Ora l’orazione di cui parlo è appunto la cella vinaria, nella quale è il Signore a introdurci, ma quando e come vuole lui. Da noi, con i nostri sforzi, non vi possiamo entrare: bisogna che ci introduca Lui. Ed Egli lo fa, quando entra nel centro dell’anima nostra”.

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Pertanto il più bel canto d’amore della Scrittura, composto con altissimo lirismo per raccontare l’amore sponsale tra l’amato e l’amata, si dilata all’infinito nei suoi vari riferimenti all’amore tra Cristo e la Chiesa, tra la Madre di Gesù e il Signore, tra ogni credente e Dio.

Come ha ben evidenziato Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est, l’agape non è una forma di amore disincarnato, ma coinvolge la dimensione fisica dell’eros e quella reciproca della philia, elevandole alla gratuità del dono di sé.

La bellezza dell’amata (di Israele, di Gerusalemme, della Chiesa, di Maria e dell’anima credente) non è artificialmente autoindotta, ma è l’esito della ricerca inesausta dell’Amato, di Cristo Signore, lo Sposo della teologia giovannea (cfr. Gv 3,29).