di Maurizio Soldini*
ROMA, venerdì, 23 dicembre 2011 (ZENIT.org) - In un tempo come quello attuale in cui si avvicina il Santo Natale e tutti si scambiano auguri di speranza, il mio auspicio è di poter vedere al più presto la legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) approdare al capolinea.
Non è più possibile continuare a vedere, a sentire e a leggere prese di posizione su problemi sensibili come quelli della bioetica, che siano relegate a una contrapposizione politica presupposta sulla base di preconfezionamenti ideologici. Ideologia che emerge anche dai recenti strappi giudiziari di tribunali come quello di Treviso, che autorizzava una paziente a interrompere eventuali terapie salvavita nel futuro.
Strappo che ha subito dato il la a richieste analoghe. In Parlamento sosta il testo di legge sulle DAT in attesa del suo varo, sofferto, lungo, che si spera arrivi al più presto in porto. Le DAT hanno suscitato e suscitano il dibattito fra politici e intellettuali, ma spesso questo è frutto di spericolate acrobazie di cordata ideologica. Che, come nel caso di Treviso, trovano lo spazio per emergere nella loro fattività, reputando i magistrati adeguati alle scelte di fine-vita.
Sembra che tutto giri intorno alla neo-religione di stampo illuminista chiamata laicismo, che vorrebbe abbattere il pre-giudizio legato ai valori della tradizione, che in qualche modo cerca il bene e il giusto, con il nuovo pregiudizio del giusto appiattito sull’autodeterminazione. E se una legge non interviene è facile trovare il magistrato che faccia da sponda a questo presupposto.
Quel che a volte sorprende è che per molti politici viene prima l’ideologia, prima il partito politico di appartenenza, piuttosto che i valori di riferimento. Il rischio è che la bioetica e le problematiche bioetiche vengano trasformate in problematiche biopolitiche e tout court in biopolitica.
Si dà il caso, invece, che una buona volta per tutte vengano abbandonate le ideologie, soprattutto quando ci sono in ballo problemi delicati come la vita e la morte, e si intraprenda una strada non di contrapposizione, ma di dialogo, per cercare di evitare il peggio. E chi ha dei valori dovrebbe avere il coraggio di metterli al primo posto, farli assurgere ad una primazia, da cui derivare argomenti e scelte.
Nel caso della legge in discussione al Parlamento sulle DAT, prudenza e saggezza dovrebbero far sì che prevalga il buon senso, per chi si rifà ai valori del bene comune e personale, di approvare quanto prima e senza tanti fronzoli una legge, che finalmente verrebbe a riempire una lacuna legislativa, che altrimenti potrebbe dare adito, come è stato nel recente passato, a interpretazioni arbitrarie da parte di magistrati che si rifanno ai loro metri di giusto e non alla misura di una legge, che ora come ora non c’è.
Checché se ne dica uno dei punti forti di questa legge sulle DAT sarebbe proprio il fatto di tenere ben ferma la volontà del paziente, anche se questa è “ora per allora”: il che di per sé potrebbe essere discutibile per una serie di argomentazioni, ma nello stesso tempo prudentemente affida l’elaborazione ponderata sul da farsi, nel caso in cui il paziente stesso non sia più cosciente, al medico di fiducia. Medico che, volente o nolente, rappresenta quell’addetto ai lavori, che, solo, può garantire, scetticismi a parte, la posizione della scienza medica nel deliberare quanto talune scelte terapeutiche siano o meno proporzionali, onde non incappare nell’accanimento terapeutico.
Perché alla fine è bene ricordare che questa legge vuole arginare derive eutanasiche, e fa bene a farlo, ma vuole soprattutto garantire il paziente dal non incappare nell’accanimento terapeutico, ma lì dove in effetti ci sia un uso sproporzionato e non ordinario delle terapie e delle tecniche di rianimazione. Bisognerebbe lasciare stare discorsi del tipo “si vogliono impadronire del mio corpo”, “mi vogliono togliere la libertà” e quant’altro. Qui si tratta soltanto e soprattutto di fare in modo che in una situazione delicata di fine vita continui a prevalere l’atteggiamento di alleanza terapeutica tra medico e paziente anche qualora il paziente non abbia più la piena contezza di sé e del suo stato.
Si fa bene a dire quali siano i trattamenti che si vorrebbero o non si vorrebbero (e il condizionale dovrà essere un obbligo morale oltre che legale) ora per allora, ma non si potrà cedere alla tentazione che per salvare l’autonomia si scada nell’abbandono. Perché il paziente non può e non deve morire violentato dalla scienza e dalla tecnica, ma la giustizia (e qui urge la legge) deve garantire che la medicina non stia con le mani in mano e il paziente non muoia abbandonato quando terapie proporzionate e non straordinarie possono fare ancora qualcosa per lui.
*Docente di Bioetica all’Università La Sapienza di Roma; Docente di Filosofia della scienza, Facoltà di Bioetica, all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum