ROMA, venerdì, 2 dicembre 2011 (ZENIT.org) – In collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre, Mark Riedemann ha intervistato per Where God Weeps (Dove Dio piange) Claudette Habesch, segretario generale della Caritas di Gerusalemme.
La Terra Santa è il luogo dove il Principe della pace ha camminato. Ciononostante questa pace non è ancora arrivata e fratture terribili continuano a dividere la comunità palestinese ed ebraica…
Habesch: Beh, forse il mio primo commento sarebbe che il vero problema non è palestinesi ed ebrei. Si tratta di palestinesi ed israeliani, e questa è una grande differenza per noi. Il nostro non è un problema religioso. Non si tratta di palestinesi contro ebrei. È un problema politico, un problema di terra e non di religione.
Lei è una palestinese cattolica ed era una profuga bambina. Può raccontarci un po’ la sua storia?
Habesch: Quando ero molto giovane sono diventata una profuga. Ho perso la mia casa, ho perso il mio letto, ho perso i miei pensieri. I miei genitori ci hanno portati per sicurezza nella nostra casa invernale a Gerico e non siamo mai ritornati. Come bambina il vero problema per me, era che non riuscivo a capire perché non potevo tornare a casa mia, perché non potevo riavere i miei vestiti e i miei giocattoli.
Questa esperienza dell’infanzia le ha generato amarezza o rabbia?
Habesch: No, perché sono cresciuta in una famiglia che ha fatto sì che eravamo bambini felici. Ho una grande ammirazione per i miei genitori. Non penso all’amarezza. Perché i miei genitori i hanno permesso di avere la migliore istruzione, la miglior casa. Ma volevo rivedere la casa di mia famiglia. Spero davvero che giustizia sarà fatta un giorno. Sfortunatamente sono più di sessant’anni e questo non è avvenuto.
Lei può perdonare dunque, ma non dimenticare?
Habesch: Esattamente, io perdono ma non posso dimenticare. Dico che non posso dimenticare, perché non voglio dimenticare. Credo di averne il diritto e la giustizia dovrebbe essere ristabilita. Ringrazio Dio che sono una madre. Mia figlia vive a circa 6 miglia di distanza da casa mia. Sta a Gerusalemme, ma c’è il famigerato checkpoint di Kalandia che noi chiamiamo il “checkpoint dell’umiliazione”. Per venire a casa mia, a volte, mia figlia ci mette alle volte tre ore per percorrere queste sei miglia. Ma quando guardo in faccio questi giovani soldati che presidiano il check-point, che ti sgridano, li guardo e li perdono, perché sono una madre. E penso: “Dio mio, se questo è la vittoria, per favore, non darla ai miei figli. Non vorrei vedere i miei figli al posto di questi soldati”.
Vorrei parlare un po’ della situazione dei cristiani, perché ho l’impressione che i cristiani sono presi tra due fuochi: da un lato i partiti nazionalisti ebrei e dall’altro un islam sempre più fondamentalista. Lei è d’accordo con questa valutazione?
Habesch: Questa è una domanda molto interessante. Perché Lei suppone che i cristiani siano discriminati o perseguitati? Lei non è il primo a farmi questa domanda, e molti giornalisti me la fanno. Io sono una cristiana araba e palestinese: è questo che io sono. E qualunque cosa accada ai cittadini palestinesi, vale anche per me. Non c’è alcuna differenza. Ma dò l’impressione di essere perseguitata, dò l’impressione di essere intimorita? Se io fossi intimorita, non sarei seduta qui a parlare con Lei. Il fatto è che non siamo perseguitati. Abbiamo accesso agli stessi diritti come tutti, come tutti gli altri palestinesi.
Mi posso immaginare che i giovani cristiani se ne stanno andando perché vedono che per i loro figli il futuro si presenta piuttosto cupo…
Habesch: Il futuro è un po’ cupo per tutto il popolo palestinese, e ci chiediamo se la comunità internazionale è veramente interessata a portare la pace in questa terra. È per questo che se ne vanno, non per altri motivi. Ho tre figli, che hanno studiato tutti negli Stati Uniti, laureandosi con lode. Avrebbero potuto fare carriera in America ma hanno scelto di tornare a Gerusalemme, perché sono cittadini di Gerusalemme. Tengono alla loro identità, e come Lei sa, avrebbero potuto rimanere negli Stati Uniti, avendo una vita molto più facile. Ma credo che come cristiani della Chiesa Madre è un privilegio di vivere a Gerusalemme. È la città più bella del mondo. Ma comporta un gran peso, tanta responsabilità. Non vogliamo che Gerusalemme diventi un museo. È per questo che rimaniamo.
Che ruolo hanno i cristiani tra la comunità ebraica e palestinese?
Habesch: I cristiani hanno un ruolo. Perché io sono parte di questo popolo, una palestinese cristiana, ma, anche a causa della mia convinzione di tolleranza, di perdono, di riconciliazione fiduciosa, penso che abbiamo un messaggio e il nostro ruolo è di dare speranza.
Alla fine, Lei è fiduciosa per il futuro?
Habesch: La mia convinzione, la mia fede non mi permettono di non sperare. Sì, a volte si vedono persone hanno perso la speranza. Sono disperate. È impresso sui loro volti. Ma, grazie a Dio, non ho mai perso la speranza, ed è per questo io rimango. È per questo che faccio il lavoro che sto facendo: per accompagnare coloro che hanno bisogno di essere accompagnati. Con la mia fede, credo che questo sia possibile, e non dimenticare che questa è la Terra della Pace. È qui che tutto è cominciato, il messaggio di pace. Gesù ha iniziato questo messaggio di pace, ma ricordo anche che Gesù pianse su Gerusalemme.
Le prime lacrime …
Habesch: Sì, sa che il nostro Patriarca ha sempre detto: “Questa è la Chiesa del Calvario”. È vero che noi siamo la Chiesa del Calvario, ma non dimentichiamo che siamo la Chiesa della Risurrezione, siamo la Chiesa della vittoria della vita sulla morte, siamo la vittoria della speranza sulla disperazione. Quindi, sicuramente rimarremo, continueremo la nostra missione e la pace è possibile, ma, abbiamo bisogno di voi per aiutarci. Dobbiamo far capire alla comunità internazionale che da soli non possiamo avere la pace, abbiamo bisogno delle Nazioni Unite per implementare le risoluzioni. Dobbiamo avere rispetto per la Convenzione di Ginevra, dobbiamo avere rispetto del diritto internazionale. Dobbiamo avere rispetto dei diritti umani.
Persino Gesù aveva bisogno di Simone per portare la croce…
Habesch: Sì, e noi abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno di voi tutti. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale intervenga ed aiuti questi due popoli a riconoscersi vicendevolmente, a rispettarsi l’un l’altro, perché, alla fine della giornata, non c’è una vittoria per un popolo e la sconfitta per l’altro. O vinciamo insieme, israeliani e palestinesi, o perdiamo insieme.
Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org
Where God Weeps: www.wheregodweeps.org