I leader religiosi del mondo pregano per la pace ad Assisi

Apprezzamento unanime per l’iniziativa promossa dal Papa

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ASSISI, giovedì, 27 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Tutti i leader religiosi che hanno partecipato questo giovedì alla Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo promossa ad Assisi da Papa Benedetto XVI hanno lodato l’iniziativa e hanno rimarcato nei loro interventi l’importanza di pregare per la pace e di dialogare.

Il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, ha affermato che il dialogo deve portare a “considerare l’altro come soggetto di relazione e non più come oggetto d’indifferenza”, “perché è dall’indifferenza che nasce l’odio, è dall’indifferenza che nasce il conflitto, è dall’indifferenza che nasce la violenza”.

“Contro questi mali, solo il dialogo è una soluzione percorribile e a lungo termine”, ha osservato, ricordando che “non viviamo unicamente gli uni contro gli altri, o gli uni accanto agli altri,ma piuttosto gli uni insieme agli altri, in uno spirito di pace, di solidarietà e di fraternità”.

Nell’incontro di Assisi, ha spiegato, “non si tratta, come alcuni insinuano, di fare del dialogo interreligioso, o un dialogo ecumenico, in una prospettiva sincretista”. “Al contrario, la visione che noi lodiamo nel dialogo interreligioso possiede un senso tutto particolare, che deriva dalla capacità stessa delle religioni di investire il campo della società per promuovervi la pace”.

“Dobbiamo opporci alla deformazione del messaggio delle religioni e dei loro simboli da parte degli autori di violenza”, ha indicato. “I responsabili delle religioni devono farsi carico del processo di ristabilimento della pace”.

Questa responsabilità, ha segnalando, “non è semplicemente verbale”, ma richiede “che siamo fedeli alla nostra fede, fedeli al disegno di Dio sul mondo, rispondendo a ciò che egli chiede”.

Il dottor Rowan Douglas Willams, Arcivescovo di Canterbury, guida della Chiesa anglicana, ha definito “un grande onore” il fatto di poter celebrare l’anniversario della prima Giornata di preghiera per la pace, promossa dal Beato Giovanni Paolo II.

Una pace duratura, ha dichiarato, “inizia là dove noi vediamo il nostro prossimo come un altro noi stessi – e dunque iniziamo a comprendere perché e come dobbiamo amare il prossimo come noi stessi”.

I cristiani, ha specificato, riconoscono nel prossimo “non solo qualcuno che ha in sé l’immagine di Dio in virtù della creazione, ma qualcuno che ha in sé anche la possibilità di portare la somiglianza di Gesù Cristo in virtù della nuova creazione”.

Se è così, “non siamo estranei gli uni agli altri. E se non siamo estranei, dobbiamo prima o poi trovare il modo di concretizzare tale reciproco riconoscimento in relazioni di amicizia vere e durature”.

“Siamo qui oggi per dichiarare la nostra volontà – o piuttosto la nostra appassionata determinazione – a persuadere il nostro mondo che gli esseri umani non devono essere degli estranei, e che il riconoscimento è tanto possibile quanto necessario a motivo della nostra universale relazione con Dio”.

Il dottor Olav Fykse Tveit, Segretario Generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, ha lodato l’incontro di Assisi sottolineando che “il mondo ha bisogno di incontri tra i capi delle comunità religiose”, così come di “costruttori di pace a partire dalla fede”.

Le comunità di fede, a loro volta, “hanno bisogno di giovani portatori di cambiamento”. “Un grande ostacolo ad una pace giusta è oggi rappresentato dall ‘alto livello di disoccupazione tra i giovani in tutto il mondo”, ha indicato. “Si ha la sensazione che stiamo mettendo in gioco il benessere e la felicità di una generazione. Abbiamo bisogno della visione e del coraggio dei giovani per i cambiamenti necessari”.

Tveit è andato poi col pensiero a Gerusalemme, annunciando che per il Consiglio Ecumenico delle Chiese “un preciso impegno per i prossimi anni sarà quello di lavorare per una pace giusta a Gerusalemme” e per tutti i popoli che vivono nella città e intorno ad essa.

“Siamo responsabili davanti a Dio e gli uni davanti agli altri per la pace nel nostro tempo e per ciò che diciamo o che non diciamo per raggiungerla”, ha dichiarato.

Da parte sua, il noto rabbino David Rosen, direttore del Dipartimento per gli Affari interreligiosi dell’American Jewish Committee (AJC), ha preso spunto dal concetto di pellegrinaggio. “Un pellegrinaggio è, per definizione, molto più che un viaggio. Le parole ebraiche per pellegrinaggio sono ‘aliyah la’regel’, espressione che significa ‘salita a piedi’”, un concetto che aveva un significato sia letterale che spirituale: letterale, poiché si saliva dai monti della Giudea fino al Tempio di Gerusalemme, spirituale o simbolico nel senso di ascesa verso Dio.

“Questo concetto di pellegrinaggio, di ascesa, è centrale alla visione profetica dello stabilimento del Regno dei Cieli sulla terra – la visione messianica di pace universale”, ha aggiunto Rosen, citando poi il profeta Isaia: “Verranno molti popoli e diranno: ‘Andiamo e saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe, affinché egli ci insegni le sue vie e noi possiamo camminare nei suoi sentieri; poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore’. Egli sarà giudice tra le nazioni e arbitro fra molti popoli; spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri e delle loro lance faranno falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra e non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,3-4).

Rosen ha ripreso anche un commento del grande rabbino Meir Simcha di Dwinsk, vissuto un secolo fa, che distingueva la pace nell’arca di Noè dalla visione profetica di Isaia. Mentre nel primo caso la pace era l’unica possibilità, nella visione di Isaia nasce dalla “conoscenza del Signore”, “sgorga dalla più intima comprensione spirituale e dalla libera volontà”.

“Per molti, nel mondo, la pace è una necessità pragmatica – e in effetti ciò è vero”, ha osservato Rosen, ma la pace a cui anelano gli uomini e le donne di fede è diversa: è “salire alla montagna del Signore”, cioè “un’idea di pace quale espressione sublime della volontà divina e dell’immagine divina nella quale ogni essere umano è creato”.

Rendendo omaggio al Beato Giovanni Paolo II ed esprimendo gratitudine verso il suo successore, Benedetto XVI, il rabbino ha ricordato i saggi del Talmud. “Ci insegnano – così spiega – che pace non solo è il nome di Dio (…), ma è anche il prerequisito indispensabile per la redenzione”.

Diverso è stato l’approccio del segretario generale della Conferenza Internazionale degli Studiosi Islamici (ICIS) e già presidente di Nabdlatul Ulama (NU), l’indonesiano Kyai Haji Hasyim Muzadi. La sua riflessione è partita dalla constatazione che “molti problemi tra gli uomini su questa terra derivano proprio da coloro che seguono una religione”, ma ciò non significa “che i problemi che sorgono dagli uomini appartenenti ad una religione siano originati dalla religione stessa”.

Per l’esponente musulmano, a generare conflitti e tensioni è il semplice fatto che “religioni autentiche” “possono avere seguaci che non sono in grado di comprenderne il carattere salutare in maniera piena e completa”, una mancanza che può portare “alla distorsione della religione stessa”. “Ogni religione possiede la propria identità”, ha proseguito Hasyim Muzadi, ma “un carattere comune ad ogni religione è la speranza per la creazione di armonia tra gli uomini, pace, giustizia, prosperità e di un migliore livello di vita”.

La sua ricetta per arrivare ad “una durevole armonia e coesistenza tra religioni” è semplice: “non si dovrebbe e non si deve forzare a cambiare ciò che è diverso, e non si devono imporre quei punti di vista che non sono condivisi”, sostiene il delegato musulmano, che ha avvertito anche del pericolo di strumentalizzazioni della religione. “Il nostro dovere, come comunità religiose, è di portare a tutti i credenti la libertà di comprendere veramente il proprio destino e di correggere le comprensioni e
rrate della religione che portano a conflitti sociali tra l’umanità”.

La rappresentante dei “non credenti” o agnostici, Julia Kristeva, ha preferito invece di iniziare la sua riflessione dalle note parole di Giovanni Paolo II, “Non abbiate paura!”. Secondo la filosofa e psicanalista, queste parole “non sono indirizzate unicamente ai credenti, perché esse incoraggiavano a resistere al totalitarismo”. “L’appello di quel Papa, apostolo dei diritti umani, ci spinge anche a non temere la cultura europea, ma, al contrario, ad osare l’umanesimo”.

“Di fronte alle crisi e alle minacce che si aggravano, è giunta l’età della scommessa”, ha continuato la francese di origine bulgara. “Osiamo scommettere sul rinnovamento continuo delle capacità di uomini e donne a credere e a conoscere insieme. Affinché, nel ‘multiverso’ di vuoto, l’umanità possa perseguire ancora a lungo il proprio destino creativo”, ha concluso.

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ZENIT Staff

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